Scegliere la vita o la morte?

«La nostra vita appare molto diversa se guardata dall'alto della nostra salute o da un letto di ospedale». Da un lettore una riflessione sui risvolti pratici ed etici che la possibilità di lasciare disposizioni sui trattamenti medici cui si desidera essere sottoposti in caso di incidenti e malattie può generare
Sanità pronto soccorso

«Ad una prima analisi le Dat, le disposizioni anticipate di trattamento, sembrano proprio una buona soluzione: si ha la possibilità di dare anticipatamente, finché si è in salute e lucidi, chiare disposizioni sui trattamenti medici cui si desidera essere sottoposti quando la malattia o l’età ci impediranno di farlo, togliendo così dall’imbarazzo medici e familiari. Pensandoci meglio, però, forse le cose non stanno proprio così.

«E non solo perché la scienza medica è in continua evoluzione ed è difficile prevedere cosa potrà offrire al momento opportuno, ma soprattutto perché la natura umana è complicata e la stessa vita appare molto diversa se guardata dall’alto della nostra salute o dal letto di un ospedale.

«Tutti abbiamo sperimentato la sofferenza e tutti ci siamo resi conto che è proprio il contatto con la malattia e il dolore ciò che ci fa cambiare la scala di valori: da tutte le esperienze forti, se dolorose ancora di più, usciamo cambiati e di solito in meglio: più riflessivi, più sobri, interessati più agli affetti che alle cose, più capaci di cogliere ciò che conta davvero. Come dunque, per tornare alle Dat, poter prevedere, in anticipo, da sani, quale sarà la scala di valori che la sofferenza ci farà elaborare? Da giovani e sani tutti corriamo il rischio di essere un po’ arroganti e supponenti; forse il giudizio più meditato sul senso della vita e sulla sofferenza, sul valore delle relazioni, su ciò che rende o impedisce alla vita di essere degna di essere vissuta lo diamo non quando siamo nel pieno delle forze, ma piuttosto quando facciamo i conti con i nostri limiti.

«Quale ragazzo non afferma con categorica certezza che, se dovesse perdere l’uso delle gambe o la vista, preferirebbe morire? È ovvio, la sofferenza e l’handicap spaventano. Di più: è assolutamente giusto e fisiologico che dica così; non lo facesse, noi per primi giustamente ci preoccuperemmo considerandolo non normale, uno che non si rende conto di quanto preziosa sia la salute di cui lui, fortunato, gode. Ma chiunque lavori con i giovani – e io di ragazzi ne ho incontrati centinaia nella mia carriera di insegnante – sa benissimo che quello che il nostro giovane voleva dirci con quella frase è tutt’altro: ci sta gridando il suo amore per lo sport, per la sua giovinezza, per la gioia di correre e di andarsene per il mondo: è questo che sta dicendo a sé e a noi, non certo il suo rifiuto della vita. Ma lo stesso vale anche per noi adulti: chi di noi si direbbe pronto ad accogliere con serenità una prospettiva di vita condizionata da forte invalidità? Pochi, credo. Eppure i fatti dimostrano che poi si cambia e che, all’occorrenza, si diventa molto più capaci di sopportazione e più attaccati alla vita di quanto si potesse prevedere. Queste Dat, allora, formulate nel pieno delle nostre forze, quanta validità potranno avere? Certo, in seguito potranno essere modificate ma, essendo pensate proprio per situazioni impreviste, probabilmente non si farà in tempo.

«C’è ancora un aspetto su cui riflettere, ed è il principale: nonostante la dicitura “neutra” queste “disposizioni anticipate” (cioè orientate – a seconda dei casi – per il prosieguo delle cure oppure per la loro sospensione) non sono affatto neutre: nella realtà sono disposizioni orientate unicamente in senso negativo, a favore della morte: per chiedere di essere curati, infatti, non c’è bisogno di un’esplicita disposizione anticipata, è sottointeso. Quindi, indipendentemente dalle intenzioni di chi le formula (evitare, ad esempio, di pesare sui nostri cari) e anche a prescindere da un loro successivo eventuale ritiro, modifica o uso, le Dat diventano – nel momento stesso in cui vengono espresse – un sottile, ma penetrante e inquietante messaggio sociale: di paura (della sofferenza), di resa (alla malattia o all’età), di scarsa fiducia (nel prossimo e nella sua capacità di prendersi cura di noi), di sconfitta e di morte, e di forte individualismo.

«Messaggio che faccio fatica a  conciliare con tutti quei grandi e bei valori in cui la nostra società dice di credere e a cui noi docenti educhiamo quotidianamente i nostri giovani: tenacia, coraggio, intraprendenza e non rinuncia. Senso di appartenenza sociale, reciproca attenzione, presa in carico l’uno dell’altro e non individualismo. Solidarietà, fiducia, speranza. Non abbandono alla morte, ma apertura alla vita».

Marina Del Fabbro

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