Scalando il Monviso

Una delle montagne più ambite dagli appassionati. Cime solitarie frequentate anche da personaggi illustri della storia.
Monviso

Lo si vede da ogni angolo della pianura. Da Torino, ad esempio, fa quasi coppia con la Mole Antonelliana anche se la distanza tra l’uno e l’altra non è poca. Ma lui, il Re di Pietra non ha pretese. Sa di essere stato e di essere tuttora un punto di riferimento e soprattutto una meta ambita per gli appassionati di montagna, per gli scalatori. Per chi la montagna la vuole vivere a trecentosessanta gradi.

Il Monviso, chiamato un tempo Mons Vesulus (Monte Visibile) fin dall’antichità ha attirato l’attenzione dei popoli: ne parlano il poeta latino Virgilio, lo storico Tacito, Plinio il Vecchio. Fino al 1700 era ritenuto il monte più alto delle Alpi per la sua posizione solitaria e perché visibile appunto da molto lontano. Noi lo osserviamo da Pian del Re accanto a un rigagnolo d’acqua che sgorga dalla roccia e dove una targa in pietra posta a lato indica «Qui nasce il Po» .

Crissolo più in basso è l’ultimo paese della Valle Po. Qui l’aria è frizzante anche d’estate, arriva dai 3.810 della vetta, dai canalini di ghiaccio, dalle cenge e dalle gole che spaccano le rocce. Frizzante lo è pure l’arzillo parroco don Luigi Destre classe 1935; lui in vetta al Monviso vi è salito centoventi volte dalle diverse pareti. Dalla via normale, alla est, ovest, nord nordovest e sudest. Ma ha anche raggiunto tutte le vette del gruppo del Viso. Visolotto, Viso mozzo, e tutte le Punte, la Sella, Trento, Caprera, Piemonte, Gastaldi, Roma e Udine. E su ogni vetta vi ha celebrato la messa. «Sul Monviso ho celebrato 53 volte la messa, due matrimoni e confessato tante persone. Lassù il 10 agosto del 2000 ho inaugurato il restauro della croce di vetta e di due medaglioni bronzei; uno della Madonna portato in vetta nel 1896 e quello del Redentore portato nel 1900. Inoltre vi è stato collocato e consacrato il logo del Giubileo in corso».

Discorrere con Luigi Destre è piacevole e ogni suo racconto è arricchimento per chi lo ascolta. Allora ci lasciamo condurre nello scoprire questo prete che è salito per la prima volta in vetta nel 1960 per accompagnare un gruppo di ragazzi della parrocchia. «Insieme alle guide alpine locali ho accompagnato più di un migliaio di giovani e non», racconta.   Nel 1968 è capo stazione del Soccorso Alpino della valle fino al 1992. «E quando mi sono dimesso ho continuato a collaborare. Eravamo volontari del soccorso, non retribuiti e qualche volta ci siamo autotassati per pagare il trasporto delle salme nei loro paesi di origine. Come sacerdote e parroco è stato per me una preziosa esperienza di apostolato per i feriti come per i familiari. Sono sempre riuscito a seguire la parrocchia ben compreso dai miei parrocchiani, ed effettuare le operazioni di soccorso a cui ho sempre partecipato di persona nel recupero sia dei feriti che delle salme». 

La montagna è sempre stupore, meraviglia e lode al Creatore.

Ci racconta qualche sua preghiera fatta a 3810 metri di quota?

«La montagna è la casa di Dio. Per me la preghiera più bella in montagna è il silenzio. La montagna è contemplazione: se l’opera delle mani di Dio è così bella, quanto più meraviglioso ne è l’autore. E’ sempre un incanto, poi, assistere allo stupore di chi assiste alla celebrazione eucaristica in vetta».

Dalle prime scalate dei suoi tempi ad ora sono cambiate tecniche, equipaggio com’era allora, com’è oggi?

«In questa cinquantina d’anni c’è stato un grande cambiamento sia per chi frequenta la montagna, sia per quanto riguarda i rifugi alpini. La scalata, l’escursione sono diventati sport di massa con tutte le conseguenze, i rifugi stanno diventando alberghi di lusso. La montagna però è rimasta la stessa, straordinaria, ma severa. Non perdona chi la sottovaluta e l’offende». Quale il ricordo più bello che le è rimasto nel cuore e lassù in vetta? «La confessione di due coppie di polacchi. Si sono inginocchiati e a turno hanno aperto la loro anima. Non mi ricordo di aver visto persone così piene di gioia tanto che dopo l’assoluzione non ho potuto non abbracciarli. Ci siamo scambiati gli indirizzi e così ci siamo rivisti a Czestochova due anni dopo. Ricordavano quell’abbraccio che, dicevano, era sembrato loro l’abbraccio paterno del Signore. Non ho potuto trattenere il pianto».

Se non sbaglio il suo vescovo nello stemma ha il Monviso, cos’ha questa montagna da attirare anche i vescovi?

«Èvero, il vescovo della mia Diocesi, Saluzzo, monsignor Giuseppe Guerrini ha nello stemma il Monviso con la scritta: “Venite saliamo al Signore”. Il Monviso è la montagna dei santi. Vi sono saliti san Leonardo Murialdo nel 1862, arrivando quasi ad essere il primo italiano a mettere piede in vetta quando una forte bufera di neve e vento lo costrinse a tornare indietro proprio quando era ad un centinaio di metri dalla cima. Tornò nel 1864 dopo la salita di Quintino Sella che dal Monviso trasse spunto per fondare il Cai. Vi salì nel 1898 monsignor Ratti, futuro Papa Pio XI, san Contardo Ferriti, il beato Pier Giorgio Frassati, in gioventù raggiunse la vetta mons. Beltritti, futuro Patriarca di Gerusalemme, molti Vescovi e sacerdoti compreso l’attuale segretario di Stato Vaticano, cardinale Bertone. Il beato Frassati, dopo la scalata del Viso, scriveva alla sorella: “Sempre più desideroso di scalare i monti, guardare le punte ardite, provare quella gioia pura che solo la montagna ha”. E San Ferrini: “È bello sentire da una cima solitaria quasi il solenne avvicinarsi di Dio e contemplare anche nella natura selvaggia e severa il perenne giovane sorriso di Lui”».   

 

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