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Cultura > Economia e democrazia in America /6

Robert F. Kennedy e lo Stato sociale

di Giampietro Parolin

- Fonte: Città Nuova

A 100 dalla nascita del politico democratico statunitense che ha saputo esprimere il sogno di un mondo più giusto che non ha potuto realizzare perché ucciso in un attentato il 6 giugno del 1968

R. Kennedy (ph Jack de Nijs per Anefo per Wikipedia)

«Gli eroi son sempre giovani e belli», cantava il maestro Guccini. E così della grande saga dei Kennedy, nell’immaginario collettivo, rimane soprattutto l’aspetto tragico della loro vicenda.

C’è in realtà un’eredità politica che andrebbe riscoperta, guardando non tanto al più famoso JFK, quando al fratello Robert nato il 20 novembre del 1925. Quando quest’ultimo è entrato in politica, a metà degli anni ’60 del secolo scorso, il governo federale aveva sostanzialmente realizzato gli obiettivi del New Deal con una considerevole crescita economica. Citando le parole di Robert: «Non c’è un problema per il quale non esista un programma. Non c’è un problema per il quale non vengono spesi soldi. Non esiste un problema o programma su cui decine o centinaia o migliaia di uffici non siano seriamente al lavoro».

Eppure quell’America che di lì a poco avrebbe portato l’uomo sulla luna, viveva crescenti disagi e frustrazioni. Gli americani si sentivano vittime della grandezza del proprio Paese, condizionati dalle forze impersonali concentrate sia nelle grandi imprese private che nello stato burocratico.

Il welfare state, lo stato-mamma, se da un lato forniva assistenza e protezione dall’altro rischiava di erodere la capacità di civica e di autogoverno dei cittadini. Se ne era già accorto anche JFK quando nel discorso di insediamento del 20 gennaio 1961 aveva affermato: «Non chiederti cosa il tuo Paese può fare per te: chiediti cosa tu puoi fare per il tuo Paese».

Ma se JFK non aveva messo il discussione welfare state, il fratello Robert si era posto seriamente il problema degli effetti indesiderati dello Stato sociale. In un discorso in Minnesota affermava fra l’altro: «Ci siamo improvvisamente resi conto del prezzo altissimo che abbiamo pagato […] con la crescita di organizzazioni […] tanto grandi e potenti da rendere vani gli sforzi e l’importanza dell’individuo, e con la perdita di valori della […] comunità e della diversità locale, che avevano trovato il loro nutrimento nelle città più piccole e nelle aree rurali dell’America».

Per Robert Kennedy la dimensione locale era cruciale per l’esperienza di una partecipazione percepita come significativa dai cittadini. In un altro discorso sosteneva: «Le nazioni o le grandi città sono troppo estese per fornire i valori della comunità. La comunità richiede un luogo dove le persone possono incontrarsi e conoscersi, dove i bambini possono giocare e gli adulti lavorare insieme e partecipare a piaceri e alle responsabilità dei luoghi dove vivono».

A questo problema dimensionale, Bob Kennedy aveva proposto come soluzione quella di aumentare il decentramento amministrativo e il protagonismo dei cittadini, a partire dagli esclusi ed emarginati: si trattava di suddividere il Paese in piccoli distretti, potremmo dire circoscrizioni, dove gli americani potessero occuparsi degli affari locali, esercitandosi nell’arte della cittadinanza.

Da senatore dello Stato di New York, Kennedy aveva potuto sperimentare questa idea sostenendo la realizzazione delle Community Development Corporations, istituzioni gestite dalle comunità (un po’ come le nostre fondazioni di comunità) per costruire alloggi popolari, ambulatori medici, ma anche attività commerciali o cinema a servizio del quartiere.

In queste forme istituzionali Robert Kennedy vedeva anche un’alternativa alle misure assistenzialistiche, come il reddito garantito che produceva «milioni di persone schiave della dipendenza e della povertà». Kennedy preferiva per i disoccupati un impiego dignitoso retribuito da una paga decente, che permettesse alla persone di contribuire al Paese. In questo non disdegnava un intervento pubblico, ma sempre in forma sussidiaria, per creare le condizioni di protagonismo dei cittadini.

Va detto che Robert Kennedy era una voce minoritaria fra i politici del proprio tempo, eppure nelle primarie democratiche, da liberale, era riuscito a parlare sia ai lavoratori bianchi che al popolo nero della protesta per i diritti civili.

Kennedy aveva pure una concezione della crescita economica ampia e profetica come si può cogliere nel celebre discorso del 18 marzo 1968 all’Università del Kansas in cui invita a guardare allo sviluppo integrale, superando il concetto di Prodotto Interno Lordo, per considerare dimensioni essenziali della vita come la salute, la qualità dell’educazione, la protezione dell’ambiente.

Dopo di lui, soprattutto a partire da Reagan negli anni ‘80, il welfare state ha visto un forte, eccessivo arretramento, per affidarsi quasi esclusivamente al mercato nella creazione di posti di lavoro e nell’erogazione di servizi pubblici.

L’enorme massa di poveri ed esclusi degli Stati Uniti attuali è lì a testimoniare che l’arretramento dello Stato sociale non porta risultati soddisfacenti a livello generale, anzi vede l’acuirsi delle disuguaglianze. E con queste la rabbia e il risentimento di molti cittadini americani.

Nuovi tentativi si sono affacciati recentemente per riprendere l’eredità politica di Robert Kennedy a partire dal neosindaco di New York Zohran Kwame Mamdani: uguaglianza economica, diritti civili e potere alle comunità sono tornati centrali nella sua agenda politica. E con questa agenda molti cittadini assenteisti sono tornati al voto.

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