Rigoletto allo Sferisterio di Macerata

Una regia equilibrata e rispettosa della musica per il dramma verdiano, interpretato da un cast di tutto rispetto
rigoletto meoni

Mettere in scena un regnante amorale, un gobbo, un omicidio – di una donna! – che finisce chiusa in un sacco, per la censura del 1850 a Venezia fu un trauma. E disse no a Verdi. Ma non conosceva l’uomo che, celebre per l’arte e per la testardaggine, alla fine ottenne quello che volle. Cioè la trasposizione del recente dramma francese di Victor Hugo, Le roi s’amuse, nei tre atti del buffone di corte cui il duca di Mantova seduce la figlia, dolce e ingenua. Il buffone – cioè il relitto umano – vuole vendetta sul potente, ma la maledizione di un altro padre – che lui ha sbeffeggiato – ricadrà su di lui e al posto del duca sarà la figlia a morire.

 

Trama tutt’altro che allegra. Ma, alla fine di una musica che afferra il cuore e la mente con una forza di sentimenti e di passioni che toglie quasi il respiro – perché vera come poche altre nella storia dell’arte – noi prendiamo la parte di Rigoletto: mostro bifronte, cinico buffone che irride chi soffre a corte, padre affettuoso nel privato. Lui, che è reso migliore solo nei momenti in cui la figlia Gilda gli è accanto, si vede tolta dal “destino” ( il fato? Dio?) anche questa speranza. Il pessimismo verdiano sembra non conoscere limiti. Ma noi piangiamo – la parola pianto è il termine in assoluto più usato da Verdi, anche qui – perché le lacrime di un padre, che è un relitto umano che vuole amare e non può – son talmente vere e simili spesso alle nostre, che ci sentiamo toccati nel profondo. Ed è in questo la grandezza di Verdi, oltre la trama dell’opera. La quale conosce il tema della maledizione (beethoveniano,si direbbe) fin dall’inizio. Ma, come in Caravaggio, alterna squarci di luce ad ombre notturne: affascinanti entrambe.

 

L’allestimento curato da Massimo Gasparon sullo spazio immenso e spoglio dello Sferisterio consisteva in una semplice architettura dipinta con affreschi di Giambattista Tiepolo, semovente, diventando quindi anche un luogo a “due piani”. Perché in Rigoletto il doppio piano dell’azione non è solo fisico, ma morale ,corrisponde alla duplicità della natura di molti suoi personaggi, tranne la pura Gilda.

 

Ad interpretare un dramma che ricorda sotto diversi aspetti il Don Giovanni mozartiano, anche se filtrato dalla personalità robusta di Verdi, un cast di tutto rispetto. Giovanni Meoni, Rigoletto nobile e composto; Ismael Jordi, duca corretto ed elegante; Désirée Rancatore, Gilda dai lunghissimi fiati, soprano forse più drammatico ormai che leggero; Alberto Rota, Sparafucile di ribaldesca gravità. Seguiva i cantanti, assecondandoli nei tempi, il giovane veronese Andrea Battistoni, che a 24 anni si trova ad essere uno dei talentuosi direttori già mediatici. Temperamentoso, irruento, sanguigno, offre le migliori speranze, se non si farà “bruciare” dalla volontà di dirigere tutto e presto…

 

Spettacolo corretto e gradevole, nonostante le interruzioni dovute alla pioggia, con un regia equilibrata che ha avuto rispetto della musica. Oggi, non è poca cosa.

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