I regimi forti dell’Asean

A volo d’uccello, qualche notizia dai Paesi del Sud-Est asiatico, una delle regioni più dinamiche del mondo, ma anche tra le più controverse e militarizzate. Teatro, nei prossimi anni, di uno scontro economico e politico

Asean, ovvero le 10 nazioni del Sud-Est asiatico, una regione tra le più vivaci del pianeta. I numeri lo dicono: la quantità di beni che vi passa è cresciuta, secondo le ultime statistiche disponibili, del 4,6% circa, una cifra di 2,57 miliardi di dollari. Si parla tuttavia di due velocità di crescita: quella dell’Asean-6 (Brunei, Indonesia, Malesia, Filippine, Singapore e Thailandia), meno veloce, da economie più mature, che raggiunge il 5,1%; e quella dell’Asean-4 (Cambogia, Laos, Myanmar e Vietnam) Paesi più  dinamici,  con  una  percentuale di circa il 6,6% di crescita del Pil. Complessivamente la regione ha redditi nazionali pari al 15% di quelli degli Usa. Queste cifre non possono tuttavia nascondere una fortissima diseguaglianza sociale.

La regione dell’Asean è in mano a governi che, se non sono regimi militari, hanno un chiaro indirizzo autoritario. Basti l’esempio delle Filippine, dove il presidente Duterte sta allargando la sua influenza, usando con mano ferrea le leve della paura del terrorismo, di quella della delinquenza comune e della necessità di autonomia economica del Paese. Il piccolo Brunei è anch’esso una dittatura, ma musulmana.

La Thailandia, altro esempio, preoccupa non pochi analisti, perché il regime attuale gode di un controllo politico, sociale ed economico senza precedenti. Il governo thai non si preoccupa granché della sua immagine internazionale, cullandosi sul successo economico: 27 milioni di turisti arrivano ogni anno a Bangkok e dintorni. Ma ogni voce di opposizione è stata zittita, i social media sono controllati. Il governo militare thailandese, con la “sezione 44” della Costituzione in vigore, può approvare qualsiasi legge, abolirla, incarcerare e scarcerare chiunque attenti alla sicurezza nazionale. Il governo attuale, per ricevere la legittimazione popolare, ha creato il nemico numero uno, Thaksin Shinawatra, già primo ministro della Thailandia e leader del partito populista Thai Rak Thai, demonizzandolo e costringendolo all’esilio.

La situazione in Myanmar non è molto diversa dalla Thailandia, solo che il Paese ha tutto l’interesse a non dare al mondo l’immagine di un governo autoritario e oppressivo. La ben nota questione dei profughi rohingya è nelle mani del governo, che cercherà  di cancellare ogni notizia che danneggi la sua immagine. Anche perché i monaci buddhisti sono molto influenti politicamente, talvolta fino alla violenza: va ricordato il monaco Wirathu, definito dal Time il “Bin Laden buddhista”.

La Cambogia viene definita dagli analisti politici “nuovo Afghanistan”, nel senso che la legalità è messa tra parentesi: il Paese sta diventando il nuovo rifugio dei pedofili internazionali e di coloro che fuggono per altri problemi di legge a livello internazionale. L’opposizione politica è sistematicamente eliminata e Hun Sen, il primo ministro, un vecchio khmer rouge, è un uomo spietato.

In Indonesia l’influenza del fondamentalismo di origine wahabita è in crescita. Persino lo Stato islamico sembra avere una qualche influenza, a dire il vero più per scopi economici che politici o religiosi. Il futuro democratico del Paese dipenderà soprattutto dalla risposta che il governo attuale di Jakarta darà a questo nuovo fondamentalismo.

In Malesia l’appoggio nascosto che il governo dà al fondamentalismo musulmano è noto. Non si prevedono cambi di potere sostanziali e così le minoranze continueranno ad essere guardate a vista. Il Paese è ricco di petrolio e funge in realtà da alleato delle potenze occidentali.

Singapore rimane la nazione più sviluppata dal punto di vista economico, con le sue raffinerie di petrolio e le sue centrali di trasformazione dell’acqua marina e dei liquami domestici in acqua potabile: è la vera potenza economica della regione, con un sistema di istruzione tra i più avanzati del pianeta.

In Laos fa una certa paura l’assenza di un potere politico reale nel Paese: da una parte l’influenza del Vietnam è molto forte e dall’altra le multinazionali thai fanno quanto vogliono. Basti pensare alle assai discusse dighe di Xayaburi che distruggeranno il fiume Mekong. Nonostante il coro di proteste internazionali, soprattutto di Cambogia e Vietnam, le multinazionali con sistemi corrotti hanno ottenuto la firma del progetto.

In Vietnam, a gennaio 2018, entrerà in vigore la nuova legge sul controllo delle attività religiose: una legge che ha generato proteste, perché rivolta a un controllo sempre più capillare di tutte le religioni. Tuttavia la Chiesa cattolica, come in Cambogia, in Myanmar e altrove, mantiene una certa libertà di movimento, occupandosi del popolo, dei poveri. Nessuna altra religione gode di una reale autonomia così preziosa.

In questo contesto cosa fanno i “Grandi”? Gli Stati Uniti mantengono la loro politica invadente nell’Asean e competono con la Cina per il controllo dell’organizzazione. Se da una parte i governi locali pendono a favore di Pechino, dall’altra c’è timore di abbandonare il vecchio alleato. A Trump interessa la politica di contenimento della Cina, in particolare nel Mar cinese meridionale, dove passa il 35% del commercio mondiale. Qui si giocherà la prossima disputa militare, nei fatti già iniziata. Ormai la Cina ha delle basi militari costruite su qualche scoglio sperduto nel mare, conteso da ben 5 Paesi: Taiwan, Cina, Malesia, Filippine e Vietnam. Il Giappone e gli Usa si sono uniti in questa disputa: gli Stati Uniti mantengono nella regione più della metà della loro flotta navale mondiale. Ma il vero dramma sono e resteranno, nonostante le statistiche economiche ottimistiche, i poveri, i senza documenti, i rifugiati, gli scartati. Sono etnie come karen, banhar, lisu, kachin, khmer e molte altre. Sono coloro che abitano le montagne dei confini di queste nazioni  o che vivono in barca, gli abitanti delle baraccopoli delle metropoli.

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