Rai o Cai?

Conti in rosso per la tv di stato. Referendum contro il DG, Mauro Masi, da oggi e per tre giorni. Mali antichi e mali più recenti.
Michele Santoro

Basta il cambio di una consonante e “Rai” diventa “Cai”. Sembra un gioco dei più classici della Settimana enigmistica, mentre invece è il passaparola che da qualche mese ha cominciato a circolare con insistenza nei corridoi della più grande azienda culturale del Paese. Uno scherzo linguistico che ben descrive lo stato di salute di un carrozzone che sempre più si sente simile al Titanic.

 

Mentre a bordo l’orchestra dei politici di tutti gli schieramenti continua a suonare la sua ipocrita sinfonia («via i partiti dalla Rai, privatizziamo», tranne poi tornare a spartirsi allegramente le poltrone), il transatlantico del servizio pubblico punta dritto sugli iceberg, senza che alcuno, soprattutto chi la guida, riesca ad invertirne la rotta evitando che si schianti. Proprio come avvenne solo qualche mese fa ad un’altra azienda di Stato, l’Alitalia, un tempo gloria nazionale che invece, dopo anni di spese allegre e buonuscite faraoniche ai manager (pagate dai contribuenti), ormai moribonda è stata rimessa in pista da una cordata di imprenditori, con un nome nuovo (Cai), ma con alcuni vizi antichi.

 

In queste ore, chi in Rai lavora, guarda con apprensione a quanto già accaduto a steward e hostess della compagnia di bandiera, e sta già avvenendo ai dipendenti del settore informatico dell’altro grande malato di Stato (la Telecom). E questo perché i conti a viale Mazzini, sono in rosso come sempre e forse di più. Per quest’anno il deficit, già fissato a 116 milioni di euro, potrebbe lievitare fino a 120, se non addirittura a 130 milioni di euro. E quel che è peggio è che nel 2012 il deficit potrebbe superare il capitale sociale che tradotto in soldoni significherebbe, come ha scritto il Corriere della Sera, «la fine non virtuale dell’azienda, l’impossibilità di chiedere altri prestiti agli istituti di credito e quindi di pagare materialmente gli stipendi».

 

Bilanci da horror che sono frutto dei tanti errori del passato, ma anche delle molte storture del presente. Perché fra tutti i dati, quello che più sorprende, è che la Rai in questa fase, contro ogni legge di mercato, migliora addirittura gli ascolti, ma non si capisce bene perché, perde invece pubblicità. Tutto il contrario dell’azienda concorrente, Mediaset che invece rastrella spot mentre non aumenta spettatori. Circostanza che non suona rassicurante in un Paese in cui il conflitto di interessi non viene mai rimosso, e nel quale a più riprese non pochi manager nominati dal proprietario dell’altra tv, nonché presidente del Consiglio, sono stati a più riprese accusati di lavorare per il nemico, smantellando l’azienda che li paga, cioè la Rai, a vantaggio dell’altra metà dell’etere, cioè le tv di Berlusconi.

 

Sospetti che, come non mai, si sono addensati sull’attuale direttore generale, Mauro Masi, già stretto collaboratore dell’attuale premier a Palazzo Chigi, e che passerà probabilmente alla storia come il manager (l’unico) per il quale i suoi dipendenti molto verosimilmente chiederanno per via referendaria il licenziamento. Su iniziativa dell’Usigrai, il principale sindacato dei giornalisti Rai, infatti, si potrà votare per tre giorni (9-10-11 novembre) la sfiducia a Masi. Un’iniziativa senza precedenti che ricorda come questo sia uno dei momenti più critici nella storia della tv pubblica italiana. Masi è infatti corso ai ripari proponendo per il prossimo anno una cura dimagrante da dodici milioni di euro per i conti dell’azienda. Una messe di tagli a spese, consulenze, servizi, mazzette di giornali, contratti, premi, prebende, trasferte. Interventi certo necessari, criticabili nel merito alcuni, comprensibili altri.

 

Sacrifici che però vengono poco compresi dai sindacati, che temendo il taglio di almeno mille dipendenti, accusano il vertice di scarsa credibilità, avendo questo, già in passato, buttato al vento ottime occasioni per far cassa (tipo l’accordo con Sky), ritardato la presentazione di un piano industriale, provvedendo peraltro, per motivi politici, a rendere difficile la vita ad alcuni dei programmi di punta dell’azienda, sia in termini di ascolti che di raccolta pubblicitaria (tipo quelli di Santoro e della coppia Saviano-Fazio). D’altronde era lo stesso Masi, l’uomo che parlando al telefono con un consigliere dell’Agcom, intercettato dalla procura di Trani, così si sfogava delle pressioni subite per chiudere Annovero: «Manco nello Zimbabwe».

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