Quel minimo vitale e il lavoro necessario

Il gesto disperato di una donna a Torino, che si è data fuoco davanti agli uffici dell’Inps, impone un vero confronto su povertà e lavoro oggi in Italia
ANSA/ ANGELO CARCONI

Come sono lontane e vane le polemiche tra reddito di cittadinanza e quello da lavoro, davanti alla mancanza di speranza della donna che si è data fuoco il 27 giugno a Torino nell’ufficio dell’Inps.

Era andata a sollecitare l’arrivo di un assegno di disoccupazione incagliato per un problema di procedure; insopportabili per chi, come l’ex dipendente delle pulizie, si ritrova senza lavoro e senza reddito e con un convivente anch’egli disoccupato.

Negare il minimo vitale vuol dire togliere l’ossigeno per respirare, se non esiste alcuna rete di protezione capace di sostenere il peso dell’umiliazione. Possono bastare 5 mesi senza paga e senza risparmi per cominciare a ricevere lettere che minacciano la disdetta di luce, acqua e gas.

I portavoce delle associazioni radunate nell’Alleanza contro la povertà hanno salutato positivamente la dotazione di un miliardo e mezzo per il reddito di inclusione, pensato per la fascia delle persone in povertà assoluta. Cifre insufficienti e che impallidiscono se solo si pensa, senza essere tacciati di populismo, al flusso di denaro necessario per gestire la conduzione dissennate delle banche in dissesto. Ma anche il bonus degli 80 euro concesso ai redditi medi bassi, senza alcun parametro di equità familiare, arriva a 10 miliardi di euro all’anno senza effetti reali per l’economia come afferma l’ex ministro del Lavoro, Enrico Giovannini.

Assicurare il minimo vitale vuol dire sottrarre le persone alla disperazione, alla trappola dello sfruttamento e del cedimento alle mafie che di soldi ne gestiscono fin troppi. Questo non vuol dirsi sottrarsi ad esercitare la leva costituzionale del lavoro dignitoso.

Ma come si può mettere in pratica senza un piano pubblico capace di renderlo possibile? Oppure l’unica strada che resta è quella degli sgravi fiscali e contributivi per i capitali privati attirati dalla facilità di licenziare?

Da come riferiscono le cronache, anche nella birreria dove lavorava l’operaia di Torino si è giunti a esternalizzare il servizio pulizie. La flessione dell’attività si scarica così sul fornitore esterno che provvede a ridurre il personale.

Lavorano tutti assieme, condividono tempo e spazi, ma non sono “compagni di lavoro” da difendere. In scala macro è avvenuto a Roma dove un intero stabile si è svuotato di oltre 1600 persone che lavoravano per il call center di Almaviva. Accanto la vita continua come prima. Quale rete è capace di dare nome, cognome e dignità a quei volti e a quelle storie?

Come accade puntualmente la prospettiva possibile la offre Francesco che, ricevendo il 28 giugno i rappresentanti di una grande sigla sindacale come la Cisl, non ha parlato solo dello scandalo degli stipendi e pensioni d’oro, ma ha messo il dito nella piaga di questo tipo di organizzazioni spesso assenti dai luoghi dell’esclusione.

Perché se è vero che «non c’è una buona società senza un buon sindacato» è ancor più vero che «non c’è un sindacato buono che non rinasca ogni giorno nelle periferie, che non trasformi le pietre scartate dell’economia in pietre angolari. Sindacato è una bella parola che proviene dal greco “dike”, cioè giustizia, e “syn”, insieme: syn-dike,“giustizia insieme”. Non c’è giustizia insieme se non è insieme agli esclusi di oggi».

Il fuoco che stava divampando sul corpo della donna senza lavoro e senza reddito è stato spento da un giovane marocchino. Resta questo gesto primordiale di soccorso vitale come segno dell’insieme da generare di nuovo.

 

Leggi anche l’articolo sul discorso di papa francesco ai delegati Cisl

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