Quando gli aquiloni tornano a volare

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Gli aquiloni. Geometrie volanti, in un tripudio di colori, contro le nubi bianche come gelati di panna montata. Sempre pronti a gratificare nell’anima il bisogno di leggerezza, di lasciarsi trasportare in cielo. Di giocare nell’aria precariamente appesi ad un filo. Specchio di un’agognata libertà. Hanno una lunga storia, gli aquiloni. I primi probabilmente cominciarono a volteggiare nei cieli della Cina circa duemila anni fa. Erano oggetti preziosi, fatti di seta e di bambù. Pare incredibile, ma la loro pri- ma applicazione non fu per scopi ludici ma bellici: nel 200 a.C. circa vennero impiegati dal generale Han Hisin per misurare la distanza tra le sue truppe e la città da assediare. Più tardi, con la scoperta della carta, i misteriosi cieli d’Oriente cominciarono a colorarsi di sagome d’uccelli, di draghi, di capre, di stupefacenti millepiedi che snodavano le loro forme ariose nel vento. L’aquilone era sentito come un’espressione della divinità, come i rintocchi nel cielo delle campane della libertà. Assunse quindi un’importanza religiosa: si fece volare di notte, vicino ai tetti delle case per proteggere i bambini e scacciare dal loro destino gli spiriti maligni. In Europa fu conosciuto tramite i racconti di Marco Polo, ma non ebbe mai un significato religioso. Fu sfruttato come strumento di volo, e nel 1752 Benjamin Franklin lo usò per catturare l’energia dei fulmini inventando il parafulmine. Oggi, con i nuovi materiali e le nuove tecnologie, gli aquiloni a due, tre o quattro fili stanno rivivendo una stagione fortunatissima dando vita a vere discipline sportive. In Afghanistan la lotta degli aquiloni era uno degli sport nazionali più sentiti. Gl’incredibili cieli tersi di Kabul e dintorni, che s’innalzano vertiginosi tra le montagne dell’Hindu Kush, erano spesso adornati da coloratissimi sagome di carta che s’affrontavano in focose battaglie. I guerrieri che li manovravano cercavano di far volare il proprio aquilone il più in alto possibile, di muoverlo sapientemente nel vento, in modo d’avvinghiare il proprio filo attorno al filo dell’avversario e poi, con un tiro deciso, spezzarlo. La battaglia continuava ferocemente, finché un solo aquilone si librava vittorioso nel cielo. Il trofeo più ambito consisteva nel catturare l’aquilone dell’ultimo avversario sconfitto.Ma, con la presa del potere da parte dei taleban (=studenti), anche questo gioco, come tante altre cose, fu vietato. Quest’antichissima passione afghana dà titolo al fortunato romanzo di Khaled Hosseini, Il cacciatore di aquiloni (Piemme). L’autore, figlio d’un diplomatico, è nato a Kabul. Nel 1980 ha ottenuto l’asilo politico negli Usa, dove ora vive e fa il medico. In questo romanzo d’esordio ripercorre i temi cari alla sua infanzia. Lo fa tessendo sapientemente la storia d’amicizia tra Amir e Hassan: due bambini che si preparano all’evento più importante dell’anno, la gara degli aquiloni. Ma i due ragazzi, sebbene entrambi musulmani, sono d’etnie diverse: Amir è pashtun, Hassan è hazara, parte d’un’etnia disprezzata dai pashtun. Amir è ricco,Hassan un servo con il labbro leporino. Però, mentre in Hassan trionfa la nobiltà d’animo, Amir si dimostra debole e vigliacco. Un giorno, in un vicolo di Kabul, per mancanza di coraggio Amir commette una colpa terribile. Che cambierà drasticamente la sua vita e quella di Hassan. Poi la storia fa il resto… Da quel giorno Amir cerca di dimenticare: la sua posizione so- ciale, pur nelle difficoltà, glielo consente. Ma una telefonata inattesa lo raggiunge nella casa di San Francisco dove si è ricostruito una vita: fa lo scrittore e gode dell’amore della bella moglie Soraya. Posando il ricevitore, comprende che non è vero che il tempo guarisce ogni ferita. Il passato è spesso una bestia dai lunghi artigli, che per anni rimane assopita, poi si risveglia all’improvviso con un ruggito che sconvolge. E chiede conto degli errori mai espiati. Amir non vuole fuggire nuovamente. S’impegna in un viaggio a ritroso alla volta dell’Afghanistan: un percorso verso la propria redenzione personale, ma anche un nuovo incontro con la sua terra madre. Che mostra un volto martoriato. Sotto il cielo degli aquiloni, si snocciola la storia dell’Afghanistan. Dai tempi antichissimi, quando proprio in quelle terre muoveva i primi passi la grandiosa visione religiosa di Zarathustra, che tanto influenzò ebraismo, cristianesimo e Islam. Successivamente quelle terre furono raggiunte dal buddhismo che si diffuse verso ovest fino alla valle di Bamiyan, dove si ergevano le maestose statue dell’Illuminato, distrutte dalla barbarie iconoclasta dei taleban. Straordinario crocevia della storia, posto sull’ancestrale via della seta, in Afghanistan sono passati Ciro il Grande e Alessandro Magno, i conquistatori arabi e i mistici sufi, Gengis Khan e Tamerlano. È giunto l’Islam, diventato la religione d’un insieme di tribù orgogliose e bellicose, che han sempre faticato a riconoscersi in un unico popolo. Poi la storia più recente, quella che ha vissuto Amir, il protagonista del romanzo. La fine della monarchia di Zahir Shar, il colpo di stato di Daoud nel ’73 che proclama la repubblica, la presa del potere da parte dei comunisti, l’invasione russa del ’79, la guerra civile, i taleban che nel ’96 instaurano a Kabul un regime islamico ultraconservatore dando ospitalità a Osama bin Laden: le donne sono costrette a diventare invisibili nel burqa, gli uomini non possono radersi la barba, i bambini non possono più giocare con gli aquiloni, adulteri vengono lapidati pubblicamente in uno stadio, nell’intervallo d’una partita di calcio. Poi: i disastri naturali causati dai terremoti del ’98, e dopo l’11 settembre i bombardamenti e l’invasione delle forze della coalizione guidata dagli americani. È difficile comprendere le tragedie vissute da questo popolo, o da questo insieme di popoli, stando di fronte alla tv. Un piccolo, tremendo segno è dato da un cartello sul confine afghano alla dogana di Dogharoon, che avverte: Ogni 24 ore, 7 persone rimangono vittime di mine in Afghanistan. Ma i dati sembrano essere ancora più drammatici. Una squadra di canadesi, arrivata per una campagna di sminamento, perse la speranza e abbandonò il campo, calcolando che – per assurdo – per rendere il territorio sicuro, l’intera popolazione afghana dovrebbe sistematicamente calpestare mine antiuomo per i prossimi 50 anni. L’Afghanistan inoltre, a differenza di tanti paesi islamici, non ha petrolio da scambiare nel mercato mondiale, ma quasi solo droga: i suoi maggiori proventi derivano dalla vendita dell’oppio e dal gas delle regioni settentrionali. Così il paese è chiuso in sé stesso. Il suo dramma pare insolubile, come una tragedia greca. Ogni sforzo per restituirlo a una vita decorosa e dignitosa, non può prescindere dall’identificazione rigorosa dei problemi e dalla valutazione di un’immagine reale d’una nazione che è rimasta senza volto tanto agli occhi degli altri quanto agli occhi di se stessa. La letteratura può fare poco, purtroppo. Se non ricordare umilmente che il passato anche doloroso si può riscattare, se si vuole. Lo può fare ogni uomo, ogni donna. L’ha fatto l’Amir del nostro romanzo. Per una nazione è più complicato: ci vorranno generazioni prima che le ferite brucianti di quasi trent’anni di guerra e di odio si rimarginino. La speranza è negli occhi neri dei bambini: loro, che tornano a far volare gli aquiloni, hanno il gravoso compito di costruire un nuovo Afghanistan. Il nostro compito, quello di tutti gli Stati, è di aiutarli.

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