Pensare la fede al tempo della Rete

Intervista ad Antonio Spadaro, direttore de “La Civiltà Cattolica”, a proposito del suo ultimo libro: "Cyberteologia. Pensare il cristianesimo al tempo della rete"
Cyberteologia

Nella premessa del suo libro "Cyberteologia. Pensare il cristianesimo al tempo della rete" (ed. Vita e pensiero), lei scrive che internet non è uno strumento, ma un ambiente da abitare. Come abitano oggi i cristiani questo nuovo spazio? Come potrebbero abitarlo domani?
 
«C’è sempre stata una grande sensibilità da parte della Chiesa come istituzione, ma anche dei fedeli, un grande interesse per tutto quello che riguarda i mezzi di comunicazione, fin dai tempi della radio. La Chiesa è sempre stata tesa ad abitare i nuovi luoghi in cui passa l’informazione, anche perché la comunicazione del messaggio del Vangelo è uno dei suoi pilastri fondanti. In particolare, in questo momento, lo sviluppo della Rete come network sociale può contribuire ad aiutare i cristiani a vivere la dimensione della relazione. Quindi la Rete è qualcosa che tocca di fatto la Chiesa, sia nella sua capacità di annunciare il Vangelo, sia in quella di vivere le relazioni. E qui sta anche la sfida per la Chiesa stessa: in un momento in cui l’informazione rischia di essere propaganda, o di essere superficiale, la Chiesa è chiamata a vivere con maggiore attenzione la sua capacità di comunicare un messaggio. La sfida è quella di evitare qualunque forma di trasformazione del messaggio evangelico in ideologia ma anche, in un momento in cui la connessione sembra essere il mito del momento presente, quella di vivere relazioni di comunione, cioè evidenziare come non basti essere connessi per comunicare e creare relazioni profonde. Guardando all’evoluzione di questi ultimi anni, direi che c’è stata grande attenzione da parte della Chiesa a ciò che sta avvenendo alla Rete come ambiente dove gli uomini abitano: la Chiesa è presente in Rete perché, di fatto, gli uomini stanno vivendo la Rete come un ambiente di vita e perché ha la percezione di una sfida importante».
 
Lei scrive che l’esperienza dello shuffle (mescolare), tipica di chi ascolta musica da ipod o altro apparecchio dedicato, può essere letta non solo in termini negativi (sottomissione al caso), ma anche in chiave positiva (predisposizione al nuovo e all’inatteso). Il mix di tracce proposto dall’ipod è però spesso il risultato della preselezione musicale di chi ascolta. Ci si può veramente imbattere in qualcosa di nuovo dentro una bolla (sonora, da cui ne discende forse una sociale) così costruita? E, nel caso in cui succedesse, avremmo gli strumenti per riconoscerne la genuinità?
 
«Questa è una domanda interessante. Se ci limitiamo al discorso musicale, direi di sì. La modalità shuffle di ascolto chiaramente nasce da una preselezione, anche se relativa. Spesso si carica musica in maniera indiscriminata oppure perché gli amici ce la passano o ce la consigliano, quindi la selezione avviene dopo. Una volta, quando era tutto più complesso e costoso, questo non avveniva. C’era una selezione a monte. Adesso a questa selezione si sono aggiunti ulteriori passaggi,fatti di scoperte, se vogliamo più semplici, forse troppo facili. Riconoscere in questo processo la novità,dipende in larga parte dalla formazione che una persona ha ricevuto. Più in generale, il rischio della Rete in questo momento è quello di rimanere chiusi dentro una bolla filtrata e cioè: nel momento in cui i motori di ricerca e i social network ci restituiscono sostanzialmente l’immagine di un mondo a noi già noto e orientano i loro risultati di ricerca, di contenuti o di persone, alla luce dei nostri interessi, registrati durante la nostra navigazione, è chiaro che è sempre più difficile ritrovare la novità. D’altra parte, l’ampiezza della Rete è tale per cui è possibile, se si è educati bene, riconoscere la novità e, se si è aperti, trovare parecchio di nuovo, perché è più facile raggiungere contenuti che altrimenti sarebbero irraggiungibili».
 
Jaron Lanier, uno dei guru di internet, ha scritto: “Se prima ascoltate, e scrivete poi, quello che scriverete avrà avuto il tempo di passarvi attraverso il cervello, e voi ne farete parte. Questo vi fa esistere”. La cultura della Rete non rischia di invadere lo spazio privato della riflessione e della meditazione imponendo una comunicazione immediata, e a tutti i costi purché si comunichi, pena l’oblio?
 
«Assolutamente sì. Il problema è che noi ragioniamo per alternative: essendo la Rete un ambiente e non uno strumento, è chiaro che crea spazi di connessione costanti. Vivere nell’ambiente digitale significa sapere che la propria giornata, la propria attività, sono attraversate, costantemente, anche senza pensarci, dal fatto che siamo in relazione con altri, e che quindi, nel momento in cui mandiamo un’email, leggiamo una notizia su una fonte di informazione digitale, facciamo una ricerca su Google o un update su Facebook (e tutto questo dal telefono cellulare, ossia in piena mobilità), viviamo in una dimensione attraversata dalla connessione. Il punto non è tanto criminalizzare la connessione o esaltare la non connessione, perché in questo modo creiamo schizofrenie inutili. Internet non è un fatto reversibile: decidere di disconnettersi sarebbe relegarci a una sorta di utopia bucolica. Anche volendolo fare, di fatto buona parte delle attività legate al nostro stile di vita (viaggiare, apprendere le notizie ecc.) passa comunque attraverso la connessione. Il problema non è tanto creare delle opposizioni, qui si tratta di capire come vivere in un mondo connesso, come trovare equilibri personali, evidentemente molto faticosi. In questo senso occorre lavorare anche nel campo educativo, per fare in modo che questa connessione non diventi un’invasione costante e l’originalità personale e la privacy non perdano del tutto i propri confini. Però stiamo parlando di una svolta che potremmo definire antropologica, dove le soluzioni facili non sono le migliori».
 
Come può essere raccolta dalla Chiesa la sfida lanciata dall’etica hacker, fondata sulle idee  di condivisione (share) e decentralizzazione, che sembrano così distanti da concetti teologici come gerarchia e trascendenza?
 
«Direi intanto che l’etica hacker è da capire nelle sue radici. Quando parlo di etica hacker non mi sto riferendo alla non-etica dei cracker, di quelle persone che rompono, rovinano o si infiltrano in maniera illegale… non mi riferisco all’illegalità, ma piuttosto a un fenomeno che storicamente nasce tra la fine degli anni Sessanta e gli anni Settanta negli Stati Uniti, entro cui si sviluppa una mentalità molto legata alle sfide intellettuali che l’ambiente informatico allora poneva. Un atteggiamento positivo, di riflessione rispetto alle sfide poste dalla vita in generale e dalla condivisione di ciò che si fa. L’etica hacker è una cosa estremamente complessa, con le sue ambiguità, ma che merita una riflessione più attenta sulle sue radici, che contengono anche dei richiami alle origini cristiane. Leggendo il libro Etica hacker di Pekka Himanen, che cito in Cyberteologia, si comprende questo riferimento alle radici cristiane, bibliche, alla Genesi, ai Padri della Chiesa, ad Agostino…che fanno comprendere come ci siano delle domande interessanti alle radici dell’etica hacker, in modo particolare: qual è il senso della vita? Tornare alle radici, capire perché questo pensiero è nato credo sia importante perché pone delle questioni decisive anche per noi, oggi».
 
All’inizio di Cyberteologia, lei avverte il lettore di non essere un tecnico, ma di aver utilizzato il jazz e la letteratura per comprendere la tecnologia e il progresso. Attraverso quali categorie la teologia ci può aiutare a pensare la Rete?
 
«La cosa più interessante che ho notato è che quando si pensa la Rete in qualche modo si fa riferimento al linguaggio teologico. Nel momento in cui si pensa alla Rete come ambiente è difficile usare le categorie ordinarie. Nel libro mostro come Lévy, per esempio, utilizzi le categorie della teologia medievale, specialmente nel momento in cui parla di intelletto collettivo. Sono quelle terminologie, quei linguaggi che ci aiutano a dire una realtà che noi stessi stiamo cercando di comprendere meglio. Poi è chiaro che la questione teologica si pone in una maniera molto semplice e questo è un sillogismo, ed è il motivo per cui ho cercato di avviare questa riflessione. Stiamo vedendo, è sotto gli occhi di tutti, come la Rete abbia un impatto sul nostro modo di pensare e vivere e dal momento che la teologia consiste nel pensare la fede, è l’intellectus fidei, mi sono chiesto: la Rete non finirà per avere un impatto nel modo di pensare la fede, dal momento che ha un impatto sul modo di pensare dell’uomo? Siamo all’inizio di una riflessione. Vedo una diffusa riflessione di carattere sociologico sulla Rete, di sociologia della religione. Bisognerebbe fare un passo ulteriore, cioè quello di capire come la logica della Rete possa avere un impatto sulla logica stessa di comprensione della fede. Questo è un compito aperto».

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