Parola e parole

Unire la “Parola”, quella intramontabile della fede, alle “parole” con le quali quotidianamente si comunica. Attorno al binomio “Parola e parole” si è dipanato il seminario di studio che l'Azione Cattolica italiana ha organizzato a Roma
New media

È sorprendente il non più giovane mons. Claudio Maria Celli, presidente del Pontificio consiglio delle comunicazioni sociali, disquisire su blogger, provider e i nuovi linguaggi dei new media. Sorprende anche la sua apertura mentale e la visione mondiale delle varie problematiche legate alla sfera digitale e virtuale.

 

Se ne parla al seminario di studio che ruota attorno al binomio “Parola e parole” organizzato dall’Azione cattolica per gli operatori della comunicazione, giovani e meno giovani appunto, in vista della 14esima assemblea nazionale in programma a Roma dal 6 all’8 maggio dal titolo “Vivere la fede, amare la vita”. E la sfida delle parole filtra attraverso la vita, la sua autenticità. «L’incontro tra fede e vita – ha sottolineato Franco Miano, presidente nazionale di Azione cattolica – è difficile perché bisogna rendere vere le parole. O c’è una fede coerente o la vita diventa sterile».

 

Nel suo complesso e profondo intervento mons. Domenico Pompili, portavoce della Cei, ha individuato tre punti, tre sfide, che possono essere un ostacolo all’intelligenza della fede nei nuovi media: l’indifferenza, la sacralizzazione della tecnica e il linguaggio.

 

L’indifferenza e il nichilismo sono le vere minacce della fede, ancor più dell’ateismo, anche se nello spazio della rete l’ambiente digitale rende possibile la collaborazione della famiglia umana. Il superamento delle distanze geografiche potrebbe costituire il «terreno – afferma Pompili – per coltivare una sollecitudine che nel riconoscimento dell’unicità dell’altro, educhi al discernimento e al riconoscimento dell’insostituibilità di ciascuno, e dell’originalità del legame io-tu come costitutivo dell’essere umano».

 

Il secondo ostacolo è la sacralizzazione della tecnica, oggi una vera e propria religione idolatrica. «L’uomo – dice Pompili – sedotto dai suoi stessi artefatti rischia di trasformarsi, come già scriveva McLuhan, nel servomeccanismo delle macchine che lui stesso ha costruito». La tecnologia, infatti, è altamente seduttiva perché coglie la vulnerabilità umana fornendo anche la magnifica illusione del senso di onnipotenza. «L’azione richiesta da un dispositivo – chiarisce Pompili – è un’abilità», mentre bisogna far leva sulla forza della persona e dell’avventura educativa perché la «conoscenza senza intelligenza, il saper fare non porta alla libertà». E un dispositivo tecnologico ha a che fare con l’intreccio di tecnica, sapere e potere. Con al centro l’uomo che è la sorgente di ogni forma di senso, anche tecnologica.

 

Altro problema è il linguaggio che deve essere compatibile con la sensibilità contemporanea. Nel panorama odierno dei media si tende a separare le emozioni dalla razionalità, il sentire dal comprendere. Come se fossimo costretti a scegliere se comunicare solo di “testa” o solo di “pancia”. «Se si spezza – chiarisce mons. Pompili – la benefica tensione tra logos e pathos, lo stesso linguaggio rischia di diventare afasico e incapace di comunicare: la parola che comunica è infatti insieme empatica e capace di significare, relazionale e aperta all’essere e alla verità».

 

Fede e tecnica collaborano, dunque, ad una nuova sintesi umanistica perché – scrive Benedetto XVI nella Caritas in Veritate – «la ragione senza fede è destinata a perdersi nell’illusione della propria onnipotenza. La fede senza la ragione, rischia l’estraniamento dalla vita concreta delle persone».

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