Otranto 1480

Un documentato affresco storico sull’assedio e la conquista della cittadina pugliese ad opera dei turchi di Maometto II

La grande cattedrale intitolata a Santa Maria Annunziata è di per sé una meraviglia di epoca normanna. Ciò che la rende unica è tuttavia l’immenso mosaico pavimentale che riveste la navata centrale e quelle laterali, il più grande d’Europa: realizzato tra il 1163 e il 1166 è una vera una foresta di figurazioni allegoriche di non facile decifrazione per noi moderni: attinte dalla Sacra Scrittura, dalla mitologia classica, dai cicli cavallereschi, dalle attività lavorative dell’uomo nei vari mesi dell’anno e dai corrispondenti segni zodiacali, affollano i rami di tre alberi lunghi quanto le tre navate del tempio, simbolo del divino, della Trinità e delle virtù teologali, quale percorso rassicurante che porta dal peccato alla salvezza.

È questo il gioiello che ha fatto conoscere a tutto il mondo Otranto, il comune della penisola salentina più orientale d’Italia, già centro greco-messapico e romano, poi bizantino, gotico, normanno, svevo, angioino e infine aragonese in quanto parte del regno di Napoli. Nel 2010 il suo bellissimo borgo antico raccolto attorno all’imponente castello e alla cattedrale è stato riconosciuto come patrimonio culturale dell’Unesco. Ponte fra Oriente e Occidente per l’importanza del suo porto, la cittadina pugliese fu sede anche di una numerosa comunità ebraica che nel IX secolo espresse raffinati poeti. Da qui, al comando del principe Boemondo I d’Altavilla (1050-1111), partirono dodicimila crociati per “liberare” il Santo Sepolcro.

Otranto è tuttavia famosa per un altro evento storico. Correva l’anno 1480 e Maometto II, il crudele sultano turco conquistatore di Costantinopoli, forte dell’inerzia degli Stati europei troppo chiusi nei propri interessi per formare una lega cristiana da contrapporre ai musulmani, ordinò al pascià Gedik Ahmed la conquista dell’Italia meridionale. Iniziò così, con una flotta di 150 navi e 15 mila uomini, l’assedio di Otranto. All’intimazione di resa – solo così gli abitanti avrebbero avuto salva la vita – i capitani Francesco Zurlo e Giovanni Antonio de’ Falconi risposero con un netto rifiuto, gettando simbolicamente in mare le chiavi della città.

Bombardata per dodici giorni da mare e da terra, Otranto resistette eroicamente; solo dopo la morte dei due condottieri e l’apertura di una breccia nelle vecchie mura castellane le orde musulmane irruppero nella città stremata. Era il 10 agosto 1480 quando iniziò la carneficina. Quanti avevano cercato rifugio nella cattedrale, dall’ottantenne arcivescovo all’ultimo fedele, furono massacrati tranne le donne giovani ridotte in schiavitù. Ai prigionieri, 812 uomini, Ahmed pascià impose – così le antiche cronache – di convertirsi all’islam, pena la morte. Poiché nessuno volle abiurare, tutti subirono la decapitazione sul colle della Minerva.

A un paio di chilometri a Sud della città i turchi distrussero anche il monastero di San Nicola di Casole dove i monaci basiliani avevano costituito la più ricca biblioteca d’Occidente. Uno di loro, Pantaleone, fu autore (pictor imaginibus) dello stupefacente mosaico pavimentale della cattedrale, trasformata in moschea dopo la conquista.

«Infelice città; di quanti cadaveri vedo ricoperte le tue vie! Di quanto sangue cristiano ti vedo inondata!» aveva profeticamente esclamato san Francesco di Paola nella primavera del 1480, riferendosi ad Otranto, dopo un fallito tentativo di convincere il re di Napoli a neutralizzare la minaccia ottomana trasferendo le sue truppe di stanza in Toscana verso l’estremo lembo orientale del regno. Invano lo stesso papa aveva cercato di smuovere il sovrano, vista l’inerzia di Venezia e Firenze, che intrattenendo proficui scambi commerciali con l’Impero ottomano non avevano alcun interesse a intervenire.

Dei martiri d’Otranto fa memoria a Napoli, nei pressi di Porta Capuana e di Castel Capuano, la cinquecentesca chiesa di Santa Caterina a Formiello. La quarta cappella a sinistra, infatti, custodisce parte delle loro reliquie traslate nel 1492 da Alfonso II duca di Calabria, mentre la maggior parte di esse rimaneva nella cattedrale idruntina. Sull’altare in marmi policromi un dipinto dei primi del Novecento rappresenta Antonio Grimaldo, il semplice artigiano che, primo a posare il capo sul ceppo, dopo la decapitazione – quale monito ai compagni a non rinnegare la propria fede -– si alzò in piedi e così rimase finché anche l’ultimo di loro venne trucidato, senza che nessun musulmano riuscisse a gettarlo a terra. Così almeno si tramanda. I corpi vennero recuperati solo nel 1481, quando le truppe aragonesi riconquistarono la città pugliese, ormai oggetto di un culto culminato, nel 2013, con la canonizzazione sancita da papa Francesco.

Martirio in odio alla fede. Ma le cose stanno veramente così? Da sempre la questione di Otranto e dei suoi martiri ha suscitato non pochi dibattiti. Tra gli autori che hanno cercato di far luce su di essa e sulle complesse vicende legate alle contese che nel XV secolo travagliavano i vari Stati italiani e la Chiesa, Vito Bianchi ha fornito con Otranto 1480 edito da Laterza un libro ben documentato e al tempo stesso di agile lettura: vi si trova tutto ciò che c’è da sapere sulla spedizione voluta dal sultano e sulla violenza scatenata sopra una popolazione inerme, rimasta fedele a quel re Ferrante d’Aragona che per insipienza, indolenza e intrighi, invece di difenderla, aveva spalancato le porte d’Italia ai turchi.

Senza escludere il coraggio e la religiosità di tanti idruntini davanti alle prospettive di morte, causa dell’ecatombe fu in realtà il rifiuto di arrendersi da parte della cittadinanza, e non di convertirsi all’Islam, come accertò la stessa commissione d’indagine fra i sopravvissuti istituita nel 1539. Del resto era noto come la presenza di ebrei e cristiani praticanti venisse tollerata dagli ottomani nell’ambito del loro impero, a prezzo di una tassa da pagare.

La conclusione di Bianchi si collega al nostro incerto presente: «Il montare sovente irrazionale dei concetti sloganistici di “guerra di religione”, e insieme una narrazione cronachistica talora tendenziosa, hanno amplificato l’idea di una contrapposizione aspra e insanabile fra Oriente e Occidente. Il pericolo di alimentare odio e violenza in un brodo velenosissimo di pressappochismo e cecità è sempre vivo, e va di pari passo con la tentazione di ergere barriere brutali fra culture e popoli. Un’equilibrata valutazione storica può contribuire, se non a disinnescare, almeno ad attutire quel pericolo, e a dischiudere margini contemporanei per una riflessione collettiva, scevra da pregiudizi, che consenta di penetrare le dinamiche d’una società odierna quanto mai bisognosa di appigli alla verità».

 

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