Nuovi accordi e vecchie sudditanze

La storia delle Filippine è stata a lungo segnata dal dominio coloniale. E i nuovi trattati commerciali non aiutano la crescita armoniosa della società. Un approfondimento dal nostro corrispondente
Manila

Già da prima della scoperta europea nel XVI secolo, l'arcipelago delle Filippine aveva relazioni commerciali con l'India, l'Arabia e la Cina, così come con altre zone del sudest asiatico.

Nel 1521 Magellano sbarcò nell'attuale Cebu alla ricerca della cosiddetta “Isola delle spezie” (molto richieste in Europa a quel tempo), e ne prese possesso in nome della corona spagnola battezzando l'arcipelago con il nome di “Isole di San Lazzaro” (il santo del giorno dello sbarco). Nel 1542 il messicano Ruy Lopez de Villalobos le ribattezzò Filippine, dal nome dell'allora principe Filippo di Spagna. L'arcipelago venne poi annesso al Messico nel 1556 con la spedizione di Miguel Lopez de Legazpi su ordine del viceré Luis de Velasco. Le Filippine, caso raro, diventavano così la colonia di una colonia, dato che il Messico era sotto il governo diretto del re di Spagna. Il dominio spagnolo durò oltre trecento anni, con la breve interruzione dell'assedio olandese e inglese.

Nel 1898 la Spagna perse la guerra contro gli Stati Uniti: Madrid dovette così cedere Cuba, le Filippine e Puerto Rico, che divennero colonie americane. I libri di storia raccontano che durante la dominazione spagnola i nativi erano stati oppressi e tenuti nell'ignoranza, così che gli americani dovettero inviare insegnanti volontari a “educare” il popolo analfabeta: per questo i filippini si sono sentiti in debito con gli Stati Uniti, credendo spesso che i non anglofoni venissero etichettati come “idioti” o illetterati. Tutto ciò arrivava dagli Stati Uniti era considerato “migliore”, così come possedere un qualsiasi oggetto importato o riuscire ad ottenere un visto per gli Usa. Persino i cittadini naturalizzati americani di origine filippina continuavano a ripetere ai loro parenti rimasti nell'arcipelago che la cultura americana o europea era “superiore”.

Trattati che si rivelano iniqui
Nel 1994 le Filippine hanno sottoscritto un nuovo accordo sulle tariffe e sul commercio, il Gatt (General Agreement on Tariffs and Trade), che mira a rendere gli Stati parte in grado di competere sul mercato globale grazie a misure come la riduzione delle tasse e delle tariffe, l'adozione di standard internazionali e la facilitazione dell'accesso a prodotti di importazione. Nel caso specifico delle Filippine, l'accordo ha riguardato soprattutto l'agricoltura, i servizi, il settore tessile, la proprietà intellettuale e le misure di investimento. Di conseguenza, però, la frutta e la verdura importate sono diventate più economiche di quelle locali, gettando intere famiglie di contadini sul lastrico. Le aziende dei Paesi industrializzati hanno potuto aprire stabilimenti più inquinanti là dove l'energia costa meno e i requisiti ambientali sono meno stringenti, salvo chiuderli – lasciando migliaia di disoccupati – per spostarsi altrove man mano che altre zone offrivano condizioni più vantaggiose. Le aziende di servizi in outsourcing pagano bene, ma lavorare per loro significa fare dei grandi sacrifici per venire incontro alle necessità del cliente. Data la differenza di fuso orario tra l'Estremo Oriente e l'Europa o l'America, molti lavoratori si ritrovano privati di un sano riposo e di tempo da dedicare alle famiglie.

Ogniqualvolta sorge una tensione diplomatica, il governo è, poi, costretto a cercare sostegno militare da altri Paesi, a causa dell'equipaggiamento antiquato di cui l'esercito dispone. Rinnovarlo richiederebbe ingenti risorse economiche, e tutto ciò che le Filippine si possono permettere sono armamenti usati: questo genera un circolo vizioso per cui i Paesi vicini tendono ad avere comportamenti prevaricatori, anche all'interno delle acque territoriali. È triste dire che “l'unica superpotenza rimasta” sembra essere la causa dell'instabilità nel Sudest asiatico, avendo necessità delle risorse che vi si trovano. E la guerra significa poter vendere le proprie armi.

Un patrimonio culturale aggredito dal relativismo 
Il neocolonialismo sta portando anche a giustificare la manipolazione del pensiero dell’opinione pubblica: un esempio è il relativismo in campo morale («vale per te, ma non per me, quindi non discutiamone») o la legge sulla salute riproduttiva, mirata a contenere il problema della sovrappopolazione dell'arcipelago (90 milioni di abitanti) tramite il ricorso ai contraccettivi. Se ciò è vero per le metropoli, affollate dalla diaspora dei contadini, è altrettanto vero che proprio per questo non c'è abbastanza manodopera per coltivare i terreni fertili, con la conseguente diminuzione della produzione e l'aumento dei prezzi. Nel contempo, essendoci già troppe persone nelle aree urbane, la competizione per gli insufficienti posti di lavoro disponibili fa crescere la disoccupazione e il numero di indigenti.

Un altro problema posto dal neocolonialismo è quello dei genitori assenti, quando un padre o una madre si trovano costretti a lasciare la propria famiglia per cercare lavoro altrove. Spesso cercano di compensare la loro assenza con beni materiali, ma questo non basta ad evitare problemi come l'alcolismo o la tossicodipendenza nei figli, le gravidanze precoci o l'infedeltà coniugale, dovuti alla carenza di attenzioni. Tuttavia, data la recessione che sta colpendo anche i Paesi industrializzati, anche lasciare la propria terra non è più così vantaggioso dal punto di vista economico.

Il neocolonialismo sembra aver quindi portato più svantaggi che vantaggi quando, come oggi accade, è abbinato al mercantilismo. Il nostro patrimonio culturale si sta smarrendo di fronte alla globalizzazione; ma la conseguenza più seria è che i Paesi in via di sviluppo sono condannati alla povertà da quelli industrializzati.

(Nella foto Manile. Traduzione di Chiara Andreola)

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