Non lasciamo solo chi è disperato

Basta con la cultura del profitto a tutti i costi. Solo una comunità unita può difendere la vita, aiutando chi ha perso il lavoro e l'azienda. Intervista a don Davide Schiavon, direttore della Caritas di Treviso
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«Per aiutare una persona che vuole suicidarsi bisogna partire dalla consapevolezza che quell’imprenditore, quel disoccupato, si trova sul baratro della disperazione. Bisogna fare il primo passo per aiutarlo ed è la comunità che deve farsi carico dei suoi bisogni, andando oltre un individualismo mascherato dalla privacy. Chi perde il lavoro, chi non ha più soldi, deve rielaborare la propria esistenza, ridare un senso alla propria vita, ma da solo non può riuscirci. Solo insieme, mettendo a disposizione ciascuno le proprie competenze in una dinamica di gratuità, di donazione, si può salvaguardare e promuovere la vita di queste persone. Se ognuno mette il suo piccolo pezzettino, tutti insieme si può riuscire a salvare una vita».

Parla con convinzione e competenza, don Davide Schiavon, direttore della Caritas di Treviso e promotore del progetto Penelope, a favore degli imprenditori in difficoltà. Dal mese di febbraio scorso è stato istituito un centro di ascolto, in via Venier 50, tel. e fax 0422/545316, e-mail: centroascolto@diocesitv.it. Aperto dal lunedì al venerdì dalle 9.00 alle 12.00 e il mercoledì pomeriggio dalle 16.30 alle 18.30, si avvale di operatori appositamente formati e della collaborazione delle associazioni di professionisti del territorio e della fondazione Banca di credito cooperativo.

Don Schiavon, come nasce la rete Penelope, chi la “tesse”, a chi si rivolge?
«L’idea è nata due anni e mezzo fa, quando presso il nostro centro di ascolto si sono presentati alcuni imprenditori che hanno denunciato le notevoli difficoltà in cui versavano le loro imprese. Erano situazioni di disagio molto forti ed era la prima volta che ci trovavamo ad affrontare problemi del genere, visto che solitamente ci rivolgiamo a soggetti che vivono in condizioni di marginalità. Nel 2010, sul nostro territorio c’è stata una escalation di suicidi. Una situazione che, in breve tempo, si è diffusa a livello nazionale. A quel punto abbiamo cercato di capire cosa stesse succedendo. Abbiamo messo il naso fuori dalla nostra città e abbiamo saputo che la Camera di commercio di Padova aveva istituito un numero verde (800510052) per gli imprenditori in difficoltà. Dopo una riflessione, abbiamo deciso di mettere insieme più soggetti, dagli ordini dei professionisti alla Camera di commercio, e senza costi aggiuntivi ci siamo organizzati in modo da fornire agli imprenditori in difficoltà un accompagnamento professionale e competente. Grazie a un rapporto di collaborazione, fiducia e stima, derivante da una collaborazione pregressa per la promozione di progetti di microcredito e di aiuto alle persone, abbiamo coinvolto anche la fondazione Banche di credito cooperativo, che si è impegnata a fornire, in particolari situazioni, delle agevolazioni a chi è in difficoltà».

Avete istituito un centro di ascolto. In quale contesto operate?
«Dal punto di vista economico ci sono molte piccole imprese che stanno facendo una grossa fatica per andare avanti. I motivi sono diversi: c’è una riduzione del mercato del lavoro e delle richieste, ed era inevitabile in questo momento di crisi, poi c’è un più difficile accesso al credito, anche per imprese che finora non si erano mai viste rifiutare dei finanziamenti. Inoltre, sta diventando sempre più difficile ottenere i pagamenti, per cui i tempi per ottenere i soldi si allargano, chi è più piccolo fa maggiore fatica ad andare avanti e accumula debiti su debiti fino a quando la situazione diventa disperata. C’è chi si impegna nel cercare delle soluzioni, anche innovative, creative, ma solitamente, essendo nati dal nulla, si tratta di imprenditori privi di competenze significative, che trovano molte difficoltà nell’andare avanti in questo mondo globalizzato».
 
Avete già aiutato qualche imprenditore in difficoltà?
«Utilizzando gli stessi spazi del centro di ascolto per disagiati, ma in giorni diversi, dal primo febbraio di quest’anno siamo riusciti a far partire un servizio di ascolto e consulenza, con una sera a settimana, il mercoledì, riservata ai colloqui. In questi due mesi e mezzo di lavoro siamo stati contattati da circa quindici imprenditori: tantissimi rispetto alle nostre previsioni. Non è stato possibile aiutare tutti, in particolare quattro, che hanno aziende molto più grandi delle microimprese di cui ci occupiamo. Per una decina di loro, invece, è stata attivata una forma di consulenza, sostegno e accompagnamento, che ha avuto effetti positivi».

Chi si suicida, solitamente, è disperato. Non chiede aiuto ai familiari invece di tentare di nascondere i problemi?
«Spesso, alla base dei suicidi, c’è una forte depressione, che può portare anche a gesti estremi. La crisi è caratterizzata da due elementi principali. Innanzi tutto, nel nostro territorio c’è una forte identificazione degli uomini con il lavoro. Essere una persona di successo è fonte di orgoglio. Il dover riconoscere dinanzi alla propria famiglia l’esistenza di serie difficoltà viene vissuto come una grande sconfitta. Questo contesto lavorativo, poi, ha quella che io definisco una sfaccettatura multidimensionale. Quando sorgono delle difficoltà, cominciano ad esserci delle ricadute sulla famiglia. I rapporti si raffreddano ed entra in crisi tutto il sistema di una persona. Questo vale sia per l’imprenditore che sta per fallire, sia per l’operaio che ha perso il posto di lavoro. Il disagio relazionale trova sfogo, sempre più spesso purtroppo, nell’alcol, nel gioco o nella depressione. L’imprenditore si sente solo e teme di tradire il patto di sostegno che ha stretto nei confronti della sua famiglia e, in particolare, con i figli. Gli viene a mancare il lavoro, su cui aveva fondato la propria esistenza sacrificando tutto il resto, e non riesce a trovare vie di uscita».

Voi come intervenite?
«Serve una ricollocazione, non solo lavorativa. Si deve ridare un senso alla propria esistenza, ma per far questo servono piccoli passi e molta pazienza, perciò i nostri operatori si muovono con grande discrezione e attenzione. Anche perché questi imprenditori devono ritrovare fiducia e non sentirsi elemosinati. Da noi ricevono forme di assistenza, ma restano protagonisti attivi e, con piccoli passi, riescono ad accettare anche la chiusura della propria impresa e la necessità di crearsi una nuova vita, con un nuovo lavoro che abbia una dimensione più umana e una più giusta collocazione degli affetti».

È possibile riconoscere una persona disperata? E come la si può aiutare?
«Quando una persona non ha più ganci su cui aggrapparsi, quando è sola, si ritrova su un baratro di disperazione. In questi casi è la comunità che deve fare il primo passo, farsi carico di chi non vuole più nemmeno cercare nuove opportunità. Certo, ognuno di noi è diverso dall’altro, ma io farei attenzione a persone taciturne, che appaiono sempre più incupite, tristi. Questo non significa che vogliano uccidersi, ma il velo di tristezza che li avvolge fa pensare che non abbiano una vita tranquilla, che non riescano a elaborare, da soli, un nuovo quadro di senso, quando quello precedente si è dissolto. Da soli non si va da nessuna parte, solo insieme, mettendo in comune competenze e apporti professionali, ma in una dinamica di gratuità, si può aiutare chi è in difficoltà, altrimenti queste persone sprofonderanno nel baratro e, se non riescono a farcela da soli, potranno cadere in forme depressive che li segnano fortemente, con la conseguente frantumazione della famiglia e delle altre realtà sociali in cui vivono».

E la crisi acuisce il disagio…
«Purtroppo siamo in ritardo rispetto a questa crisi, per la quale abbiamo già pagato un prezzo molto alto e bisogna essere consapevoli che nessuno è protetto: persone che pensavano di poter vivere tranquille nell’agiatezza,  dopo un anno sono sul baratro della disperazione. Io credo però che, se ognuno di noi dà il proprio aiuto, dà il suo piccolo contributo, tutti insieme possiamo ricalibrare la situazione in modo diverso, cambiando questa cultura fondata sull’esclusione e sul profitto a tutti i costi. Questa emergenza ci chiede una cultura diversa, per salvaguardare la vita delle persone».

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