Nodi irrisolti nella Repubblica Centrafricana

Il Paese vive nell'agonia dal marzo scorso, quando i ribelli della coalizione Séléka hanno preso il potere. Forti interessi delle potenze straniere e classi dirigenti incapaci di difendere la res publica lo hanno trascinato nel dramma dei sacccheggi, delle torture, degli stupri e la religione è usata per fini eversivi
Bangui

Le notizie che ogni giorno giungono dalla Repubblica Centrafricana sono a dir poco allarmanti. Eppure, il mondo sembra far finta di niente. Da quando i ribelli della coalizione Séléka hanno preso il potere, lo scorso 24 marzo, rovesciando il governo del presidente François Bozizé, questo Paese è in agonia. Non c’è giorno che passi senza che avvengano saccheggi, esecuzioni sommarie, stupri e torture contro i civili. Il presidente golpista Michel Djotodia ormai non ha più il controllo della situazione per il costante e progressivo ingresso nel Paese africano di mercenari sudanesi e ciadiani, molti dei quali inquadrati all’interno di cellule eversive jihadiste. Viene spontaneo chiedersi quali possano essere le ragioni che hanno determinato questo scenario apocalittico. I principali fattori di vulnerabilità sono di ordine economico, ma non solo. Andiamo, allora, per ordine, cercando di cogliere la complessità di uno scacchiere dove è in gioco la sopravvivenza di milioni di innocenti.

Nonostante gli investimenti previsti dai primi piani di sviluppo nel settore industriale, il Centrafrica, in questi anni, è sempre stato in balìa di gruppi d’interesse che hanno fatto il bello e il cattivo tempo, acuendo a dismisura l’esclusione sociale. Col risultato che la sussistenza della popolazione è sempre dipesa da colture alimentari e di piantagione, senza però che vi fossero evidenti benefìci dal punto di vista reddituale. Per soddisfare la domanda interna, i fertili terreni del Centrafrica consentirebbero una produzione agricola ragguardevole di mais, miglio, riso, manioca, agrumi e banane. Mentre ai fini dell’esportazione, almeno sulla carta, potrebbero avere un significativo rilievo le coltivazioni di canna da zucchero e soprattutto le produzioni di cotone e caffè. Rilevante, poi, la produzione di legname e caucciù, ricavati dallo sfruttamento forestale.

Sta di fatto che, da quando il Centrafrica è divenuto completamente indipendente con la dichiarazione del 13 agosto del 1960, sarebbe stata sufficiente una leadership politica lungimirante, in grado di amministrare questo patrimonio, per assicurare pace e benessere alla gente. Ma le classi dirigenti succedutesi alla guida del Paese, sono sempre state incapaci di tutelare la res publica. Anzitutto perché al soldo di potentati stranieri (francesi in primis), ma anche perché in balìa delle turbolenze sui mercati internazionali dei prezzi di alcuni prodotti destinati all’esportazione, come cotone e caffè. Ecco che allora i mali cronici di questa nazione sono, oltre alla corruzione, il forte passivo della bilancia commerciale, l’indebitamento con l’estero, il controllo sulla spesa dello Stato e l’avvio di misure per stimolare l’imprenditoria locale. Tra l’altro, nonostante le cicliche perturbazioni climatiche che coinvolgono vaste aree del Paese, anche l’allevamento bovino e caprino potrebbero garantire una considerevole fonte di sostentamento per la gente. Ma non è tutto qui. Le più consistenti ricchezze di questa ex colonia francese sono nel sottosuolo e solitamente sono quasi ignorate da coloro che redigono i cosiddetti atlanti di geografia economica.

A parte i giacimenti di petrolio a Birao, capoluogo della prefettura di Vakaga, la più settentrionale tra le 14 prefetture del Paese, i diamanti costituiscono una risorsa significativa dei grandi depositi alluvionali nelle regioni occidentali del Paese. Come se non bastasse, vi sono depositi di oro, ferro e, soprattutto, uranio. Quest’ultima fonte energetica è stata localizzata a Bakouma, 500 chilometri dalla capitale, Bangui. E qui comincia a stringersi il cerchio nella individuazione delle responsabilità di coloro che hanno permesso che il Paese precipitasse nell’oblio.

Sebbene l’ex presidente Bozizé fosse un personaggio a dir poco controverso, avendo una spiccata propensione per il nepotismo, già nel 2007 si era ribellato contro l’egemonia delle imprese francesi. I dissapori sulle concessioni per lo sfruttamento del petrolio da parte della Total e dell’uranio tanto caro alla potentissima società Areva hanno fatto sì che, per così dire, Bozizé fosse “scaricato” dal governo del presidente François Hollande. Nel frattempo, all’interno della Séléka sono confluite diverse anime del dissenso, ma anche alcune componenti dell’estremismo islamico, foraggiate dal salafismo di matrice saudita. L’accanimento delle cellule jihadiste contro la società civile (onesti cittadini, comunità cristiane e anche musulmani moderati) ha fatto sì che questo conflitto civile assumesse anche una valenza religiosa.

In effetti, dal punto di vista fenomenologico, si tratta più che altro di una palese strumentalizzazione della religione per fini eversivi. In tutto questo contesto, la Cina sembra stare alla finestra a guardare, mentre gli Stati Uniti, solo in tempi recenti, hanno dato l’impressione di svegliarsi dal letargo, esprimendo preoccupazione per le vicende centrafricane. E dire che Washington dispone di Africom, un’unità di comando, formalmente attiva in Africa dall’ottobre 2008, responsabile delle operazioni militari statunitensi che si svolgono in tutto il continente africano in funzione antiterroristica.

Proviamo dunque a tirare le fila del nostro ragionamento. Se da una parte vi è l’evidente interesse di esportare l’ideologia salafita nel cuore del continente africano, dall’altra sembra esservi un’evidente contrapposizione dell’ala estremista della Séléka, non solo in funzione antioccidentale, ma anche contro quei Paesi inquadrati nel cartello dei Brics che guardano con bramosia alle ricchezze del sottosuolo centrafricano. Naturalmente, sebbene le grandi potenze abbiano il loro fardello di responsabilità, solo ipotizzare che la via del riscatto, per il Centrafrica, passi attraverso l’affermazione della shari'a, la legge islamica, è pura follia.

Nei giorni scorsi, la Francia ha deciso di inviare un migliaio di uomini in Centrafrica per tentare di normalizzare la situazione. Risulta, comunque, assai difficile dirimere l’intrigata matassa degli interessi in campo. Qualcuno, sottovoce, nei circoli della diplomazia, avrebbe ipotizzato l’assegnazione a un’entità sovrannazionale di un mandato fiduciario, a nome delle Nazioni Unite, con lo scopo di garantire, almeno per alcuni anni, lo stato di diritto a Bangui e dintorni. Ammesso pure che questa ipotesi possa consolidarsi, quali attori internazionali potrebbero offrire davvero garanzie di stabilità e imparzialità? Una cosa è certa: i delicatissimi problemi di state-building fanno di questa nazione la cartina al tornasole del pensiero debole di una politica internazionale incapace di affermare la globalizzazione dei diritti.

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