Nessuna tregua per il dialogo

La chiede il vescovo Martinelli da Tripoli, in una città in agonia. Ieri sera un nuovo bombardamento è stato effettuato nei pressi della chiesa generando altro terrore
Macerie dopo un bombardamento in Libia

Mentre in Italia tiene banco il dibattito parlamentare sulle mozioni presentante dalla Lega e da vari partiti dell’opposizione a proposito della missione in Libia – in cui si chiede di stabilire tempi certi per l’intervento e di assicurare la protezione per la popolazione civile – a Tripoli e dintorni continuano a cadere le bombe. La voce dei diretti interessati, ossia di quella popolazione civile che si vuole tutelare – fatica proprio ad attraversare il Mediterraneo e giungere ai luoghi deputati alla pace. Ci aggiorna sulla situazione il vescovo di Tripoli, monsignor Giovanni Martinelli.

 

Nel bombardamento mirato in cui è rimasto ucciso il figlio di Gheddafi, si è chiaramente percepito che il vero obiettivo dell’intervento militare non è la protezione della popolazione o il sostegno ai ribelli, ma l’eliminazione fisica del dittatore…

«L’idea di liberarsi di lui si era affacciata all’inizio, ma poi l’attenzione si è spostata sulla popolazione. Le bombe però hanno fatto tante vittime civili e creato grande turbamento: diverse mamme incinte sono state costrette ad abortire per lo shock, i bambini non vanno più a scuola, non c’è più benzina, e bisogna stare in coda per ore per riuscire recuperare del carburante o un po’ di cibo. Anche gli uffici pubblici non funzionano più, e la gente non esce di casa se non per stretta necessità. Ieri sera c’è stato un bombardamento qui vicino, ma non sappiamo se ci siano vittime. Ormai è chiaro che l’obiettivo è eliminare Gheddafi, ma dobbiamo chiederci se è questa la via migliore: la soluzione sta nel garantire la transizione. E per farlo è necessario un dialogo all’interno della società libica, una via su cui nessuno per ora vuole arrischiarsi».

 

Si parla infatti spesso del rischio di una rivoluzione interna e di una divisione del Paese tra Tripolitania e Cirenaica: come può la comunità internazionale aiutare questa transizione?

«Non credo che la divisione del Paese sia una soluzione, e non so se nemmeno i libici la desiderino davvero: esistono comunque dei legami di sangue tra le due parti. A giocare un ruolo importante, più che la comunità internazionale, potrebbero essere l’Unione africana o la Lega araba: si tratta infatti fondamentalmente di un problema interno alla Libia e al mondo arabo. Peraltro, la volontà di eliminare Gheddafi, che ha pur sempre governato per quarant’anni, è percepita come un atto di umiliazione non solo nei suoi confronti, ma anche del popolo libico».

 

Com’è evoluta, nel corso della guerra, la percezione degli eventi da parte della gente?

«Indubbiamente l’intervento militare è sentito come un’intrusione. La zona di Tripoli, in particolare, è con Gheddafi, e la gente è disposta a tutto. In altre zone c’è una maggioranza di oppositori, ma sono sempre più aggressivi quelli che vogliono mantenere lo status quo. La comunità internazionale può fare poco: è necessaria una tregua per trovare il modo di dialogare, perché la guerra, chiaramente, non è il contesto opportuno per farlo. Anche il papa, nelle udienze generali, ha fatto riferimento a questa necessità».

 

 

Come sta vivendo nello specifico la comunità cristiana?

«Compie dei veri miracoli. Siamo circa 5 mila persone, e nonostante le difficoltà a riunirsi, legate anche ai costi del carburante, la gente partecipa con gioia e con fede alla celebrazione della messa. Stanno dando una testimonianza preziosa a tutta la comunità libica soprattutto con il loro impegno negli ospedali, dove lo staff sanitario è quasi interamente garantito da loro. E anche i non cristiani riconoscono e apprezzano questo servizio».

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