Mi chiamava “Cuccioletta”

Ricordi dei “primi tempi” di Carla Graziadei Lubich, la sorella minore di Chiara, deceduta lo scorso agosto
Carla Lubich

Il 21 agosto scorso ci ha lasciati Carla, la sorella minore di Chiara Lubich. Aveva 87 anni. Abitava in via Santa Maria Goretti, nel cosiddetto “quartiere africano” di Roma, dove s’era trasferita verso la metà degli anni Cinquanta. Vedova di Fabio Graziadei e malata da tempo, trascorreva gran parte della giornata in poltrona. La ricordo sempre dolce e affettuosa, grata quando andavo a farle visita,  occasione ogni volta per rievocare episodi noti o inediti riguardanti la sua giovinezza a Trento e i Lubich: «Eravamo una bella famiglia. Ogni volta che ci si sedeva a tavola era un “Montecitorio” perché ognuno aveva le sue idee, diverse da quelle dagli altri, e le diceva, ma nell’amore».
Di Chiara fanciulla (allora ancora Silvia) ricordava quando rischiò la vita per una peritonite: «L’operazione era andata male, la davano per persa. Quando la mamma l’ha saputo, sai cosa ha fatto? È corsa a casa a prendere l’acqua di Lourdes per fargliela bere. Chiara s’è salvata per miracolo!».

Carla si descriveva come la “mattacchiona di casa”, di una vivacità incontenibile: «Avevo sempre voglia di giocare, scherzare, cantare (ho fatto parte anche del coro dei frati cappuccini). E Chiara mi voleva un bene! Mi chiamava “Cuccioletta” perché ero la più piccola.  Quando avevo combinato qualcuna delle mie, mi difendeva sempre davanti al papà, persona molto retta ma anche molto severa. Come quella volta (avrò avuto sei anni) che avevo mangiato il budino di nascosto: ora, quando doveva punire noi figli, il papà era solito metterci in fila davanti a lui, in ordine di età – prima Gino, poi Chiara, poi Liliana ed infine io – e ci interrogava ad uno ad uno. Siccome gli altri si erano detti tutti innocenti, è arrivato a me che ormai sapevo di prenderle (“Ma allora – ha chiesto – sei stata tu?”). A questo punto Chiara s’è messa tra noi due: “No, papà, non toccare la Carla!».

Ancora Chiara – un altro episodio – ha interceduto presso la mamma per la sorellina dodicenne, rassicurandola che si sarebbe incaricata lei di insegnarle la “dottrina”: Carla, infatti, si era impuntata a disertare le lezioni di catechismo del parroco: «Ogni volta mi addormentavo oppure, quando lo vedevo fiutare il tabacco, mi scappava da ridere. Fra l’altro lei mi ha fatto imparare questa bella preghiera: “Gesù, oggi ti offro tutta la mia giornata. Fa’ che sia una continua donazione d’amore. Fa’ che non resti un solo istante lontana da te nel far qualcosa che non sia per te”. Beh, da allora a quanti anni ne ho adesso, l’ho sempre detta».
Veramente Chiara è stata per Carla un costante punto di riferimento: «Voleva la perfezione in tutto. Per esempio, nel modo di pettinarsi, di vestirsi». Quanto all’altra sorella, Liliana, «più calma, seria, un po’ chiusa», anche a lei – destinataria di memorabili lettere ora pubblicate nel volume Lettere dei primi tempi – «Chiara voleva bene, ma in modo diverso».

Del periodo precedente alla nascita del movimento, Carla ricordava come una volta mamma Luigia avesse chiesto alla figlia maggiore: «Cos’hai intenzione di fare, Silvia, per il tuo futuro?”. Da come lei si comportava – sempre dolce, calma, assidua alla chiesa – era convintissima che sarebbe diventata suora. La risposta di Chiara: “Mamma, no… mi sposerei piuttosto”. Tanto amava la famiglia! La amava in un modo incredibile. Comunque credo che avesse già in mente qualcosa, tant’è che circa una settimana prima del bombardamento del 13 maggio 1944, aveva chiesto, “per fare una prova”, una stanzetta alle Dame di Sion che avevano il loro istituto in collina, presso un ospedale per tubercolotici, proprio accanto ai frati cappuccini. Il primario era il dottor Lubich, il primo cugino di papà. Allora con un carretto, dalla nostra casa in via Goccia d’Oro, siamo andati a portare un po’ di mobilio per arredarla: una branda, un tavolino e un armadietto. Me lo ricordo sia perché ho spinto anch’io quel carretto e sia perché ero disperata per aver perso, durante il tragitto, un cagnetto che mi era stato regalato. Poco dopo in quella stanzetta l’ha raggiunta la Natalia, la prima delle sue compagne. Sono rimaste lì una settimana, credo, poi hanno dovuto sloggiare perché le suore sono andate via».

Poi l’allarme per il bombardamento: «A quel punto noi siamo scappati nel bosco di Goccia d’Oro, in una grotta che esiste tuttora. Eravamo papà, mamma, io e Liliana, in attesa di sfollare a Centa, in Valsugana. Pure Chiara ha trascorso una notte in quella grotta, dove aveva portato due materassi ed altra roba recuperata dalla nostra casa sinistrata. Quando mi ha confidato: “Carla, non soffrire quando dirò alla mamma che devo rimanere a Trento con le mie compagne” (sapeva infatti quanto fossi attaccata a lei), mi sono messa a piangere: non capivo perché volesse andare via di casa. E poi è partita, ha raggiunto Gino che prestava servizio come medico all’ospedale di Santa Chiara, lo ha aiutato a tirar su i morti dalle macerie. Chiara non lo ha mai perso di vista, forse perché lo sapeva in pericolo (era un capo di partigiani).

«Più tardi Gino è stato preso dalle SS tedesche e imprigionato nella cantina di un ospedale presso Bolzano, dove è rimasto un anno. Lì l’hanno torturato per fargli confessare i nomi degli altri partigiani. Siccome gli avevano detto: “Se non parli, ne andranno di mezzo quelli della tua famiglia, cominciando dalla più piccola” (sarei stata quindi io la prima ammazzata!), mio fratello era sempre in pensiero per me. E quando il papà è sceso giù dalla montagna dove eravamo sfollati e ha potuto rivederlo, Gino non ha avuto pace finché non ha avuto la sua promessa che gli avrebbe mandato anche me. Io sono arrivata a trovarlo nascosta in un camion delle SS sotto la protezione di un ufficiale italiano che collaborava con i tedeschi. Mentre Gino tirava un sospiro di sollievo nel costatare che ero veramente salva, ho assistito ad una scena terribile, che non dimenticherò mai: ho visto ammazzare un tale che è caduto a rotoloni giù per le scale di quella prigione».

Tanti i ricordi sugli inizi dei Focolari. «Noi di casa capivamo che Chiara aveva iniziato qualcosa di suo, un movimento, già dall’andirivieni di ragazze nella casa dove eravamo andati ad abitare dopo quella in via Goccia d’Oro, e più tardi da quelle che si ritrovavano sempre con lei nei rifugi e a piazza Cappuccini, il primo focolare, che però allora si chiamava “la casetta”. E lì ne succedevano di tutti i colori». Come l’episodio di Celeste Di Porto, un’ebrea considerata criminale di guerra perché accusata di aver collaborato con i tedeschi, soprannominata la “Pantera nera”. Una volta uscita da un carcere romano, per sottrarla alle rappresaglie era stata accolta, per richiesta dei coniugi Alvino, nell’appartamento di piazza Cappuccini. «Io l’ho conosciuta, ma Chiara non mi ha detto chi era e che era ricercata. Siccome questa ragazza voleva sempre uscire a passeggio per Trento, un giorno Chiara mi ha chiesto di accompagnarla; ma quando in piazza Fiera ho visto un manifesto con una foto della Pantera, ho capito tutto. A lei è venuta una paura terribile, per cui siamo subito tornate a casa, dove Chiara e la Vitt per non farla riconoscere le hanno fatto tingere i capelli. Ma per quanto le si potessero cambiare i connotati, era talmente bella vistosa che non si è potuto tenerla nascosta lì non più di un mese».
«A vent’anni – ancora mi raccontava Carla – mi sono innamorata di un militare napoletano (era di Trecase, sotto il Vesuvio). I miei non erano convinti, ma io insistevo nel dire che gli volevo bene. Chiara allora ha incaricato la Giosi di prendere informazioni sulla famiglia di quel giovane, così s’è saputo che i suoi erano pescivendoli: “Non importa – insistevo –, io gli voglio bene lo stesso!”. Ma quando lui mi ha prospettato che, sposandolo, avrei fatto quello stesso mestiere, a quel punto mi sono raffreddata, ho cercato di dimenticarlo. Poi è andato in guerra in Russia e quando ho saputo che era saltato col suo automezzo passando sopra una mina ne ho sofferto tanto».
Anni dopo il matrimonio con Fabio, il trasferimento da Venezia (lui era ufficiale di marina) nella capitale per stare più vicina a Chiara, che già nel 1948 aveva iniziato l’avventura romana, la nascita di tre figlie: Fabiola, Agnese (Lella) e Luigia (Genny).

«Fino all’ultima sua malattia, Chiara, mi ha sempre aiutata in tutto.  Mi è stata di grande sostegno specialmente quando è morto Fabio. A Calceranica, il paese mio marito, abbiamo una casa dove da Roma andavamo a passare i mesi estivi. Ancora adesso ci ritorno d’estate, ma lì tutto mi ricorda lui (come quando mi affacciavo e lo vedevo giù nel frutteto a tagliare la legna per l’inverno), e quando mi prende la malinconia ho di nuovo il desiderio di ritornare a Roma».
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 

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