Mali sott’assedio

Il continente africano è nuovamente al centro delle cronache internazionali per il conflitto che sta scuotendo lo Stato dell'Africa sahariana occidentale. Sarà il banco di prova della genuina volontà della comunità internazionale di operare non solo militarmente ma anche sul versante umanitario
mali profughi

Dopo il colpo di Stato che, nel marzo 2012, ha rovesciato il governo di Amadou Toumani Touré, nel Nord del Paese il potere è stato “occupato” da gruppi islamisti che, con gesti eclatanti, come la distruzione di antichi e preziosi mausolei, hanno più volte provocato le proteste della comunità internazionale. Da qualche settimana lo scontro si è acuito ed è ricominciata l'avanzata dei ribelli, che hanno tentato di conquistare la stessa capitale Bamako. Per fermarli, su richiesta del presidente deposto, è intervenuta la Francia, con il sostegno delle Nazioni Unite.

Ma cosa accadrà nei prossimi mesi? Ne parliamo con il politologo ed esperto di questioni internazionali Pasquale Ferrara.

Cosa sta accadendo realmente in Mali?

«In Mali si stava verificando una sorta di conquista del potere attraverso metodi militari da parte di formazioni islamiste militarizzate: è in corso una offensiva armata contro i poteri legittimi del Paese, una sorta di insurrezione armata o di tentativo di rovesciamento violento delle istituzioni. Questo è il punto di partenza, su cui si è concentrata l'attenzione della comunità internazionale e, in particolare, del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite: non a caso il segretario generale dell'Onu ha parlato non della minaccia islamista in termini di scontro di civiltà e quant'altro, ma del fatto che le istituzioni e l'integrità territoriale del Paese erano in grave pericolo. Questo ha determinato il consenso all'iniziativa francese».

Il Mali è un'ex-colonia della Francia, che è intervenuta con decisione nel Paese, ma ora invoca la collaborazione dei Paesi confinanti. Ci sarà un'azione congiunta?

«Lo scorso dicembre il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite ha approvato una risoluzione che ha deciso il dispiegamento di una missione di peace keeping di tremila caschi blu o forze internazionali in Mali, con la presenza di contingenti africani. Allora era stato ipotizzato un tempo di intervento piuttosto lungo – sei, sette mesi – perché non è un'azione facile. Poi, però, c'è stata un'offensiva delle forze islamiste e militarizzate dal Nord per la conquista della capitale. Visto il precipitare degli eventi, i francesi hanno deciso di anticipare l'intervento. Lo hanno fatto senz'altro a modo loro, ma in un contesto diplomatico che già consentiva un'azione. L'accordo e i negoziati avviati prevedono l'intervento di Niger, Nigeria, Burkina Faso, Senegal, Benin, Togo – quest'ultimo è membro non permanente del Consiglio di sicurezza dell'Onu – con contributi dai 300 ai 600 uomini, per complessive tremila unità, una cifra standard sotto la quale si rischia di non avere alcun impatto. Rimane tuttavia in piedi l'idea che, essendo una questione africana, debbano essere essenzialmente gli africani non solo ad intervenire, ma anche a prendersi la responsabilità diretta di questa operazione».

L'acuirsi del conflitto in Mali è una conseguenza di quanto accaduto il Libia, con la fine di Gheddafi e lo spostamento di tanti estremisti di al-Qaeda?

«La presenza al-Qaeda in Libia è reale, ma contenuta. C'è stata, però, una “mitologia” alimentata dallo stesso Gheddafi per sostenere la necessità di un governo forte e di un uomo forte, altrimenti il potere sarebbe passato sotto controllo di gruppo islamisti e di Aal-Qaeda. Certo, non sono mancate azioni terroristiche, con l'assassinio dell'ambasciatore americano Stevens e l'attentato al console italiano, ma esiste anche una dimensione molto più vasta. In Libia c'era un leader che era diventato un oppressore per il popolo, nel Mali la situazione è molto diversa: c'è un governo debole con istituzioni traballanti che rischiano di essere rovesciate da gruppi che si ammantano della formula islamista, ma che in realtà sono formazioni paramilitari che mirano alla conquista del potere e pur di ottenerlo giustificano la loro azione anche ideologizzando l'elemento religioso».

Chi finanzia questi gruppi?

«Difficile dirlo. L'islamismo potrebbe essere definito un network, una rete sponsorizzata non da uno Stato in particolare – ma con diversi punti di contatto – molto difficile da ricostruire. Molti gruppi si autofinanziano con attività collaterali, come sempre avviene per questo tipo di movimenti border line».

Per il suo intervento, la Francia ha ricevuto minacce terroristiche e attacchi spam e hacker. Quello informatico è un altro fronte di combattimento?

«C'è effettivamente un grosso rischio per tutte le società avanzate e informatizzate. Non dimentichiamo, per fare un esempio, che recentemente il programma nucleare iraniano è stato attaccato e momentaneamente messo in condizione di non poter funzionare attraverso un virus che è stato inserito nel programma. Quello informatico è un mezzo molto potente, ma non credo che possa rappresentare una minaccia di carattere esistenziale per una società, anche perché sono state messe in atto contromisure come backup e disseminazione di dati in diversi server, come iCloud, la famosa nuvola. È molto difficile che si attacchi un centro dove sono concentrati tutti i dati e le informazioni e che questi vengano distrutti o resi inutilizzabili, ma sicuramente l'attacco informatico – che ha un valore soprattutto simbolico – può creare confusione, disordine e tentare di destabilizzare alcune istituzioni».

Gli sfollati e i rifugiati sono già centinaia di migliaia. Questo provocherà uno stravolgimento nella regione o la rete di solidarietà che si sta formando tra i Paesi vicini reggerà?

«Questo sarà il vero banco di prova della genuina volontà della comunità internazionale di fare qualcosa di costruttivo che vada al di la dell'intervento militare che serve a fermare il rovesciamento del quadro istituzionale in Mali. Serve un'azione forte per risolvere il problema dei rifugiati attraverso accordi con i Paesi confinanti e l'organizzazione internazionale per i rifugiati, che però ha bisogno di essere finanziata. Se tutto questo avverrà, sarà la prova della volontà politica di completare l'intervento tenendo conto anche della dimensione umanitaria. L'Africa è sempre più protagonista dello scenario internazionale. Speriamo che lo diventi anche per aspetti positivi, costruttivi, per l'apporto che gli africani possono dare ad una nuova governance globale, portando qualcosa di nuovo all'interno di una comunità internazionale che è ancora troppo legata a schemi tradizionali e in cui sono ancora troppe le asimmetrie di potere tra i diversi Paesi».

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