L’università pubblica chiude?

Aprire sconvolgendo la didattica o restare chiusi per protesta? Situazione drammatica e giorni decisivi per gli atenei italiani. Ne parliamo con Vincenzo Nesi, direttore del Dipartimento di matematica dell’università La Sapienza di Roma.
Universita La Sapienza Roma

Le lezioni alla facoltà di Scienze matematiche fisiche e naturali non sono ancora iniziate e gli studenti sono a spasso. Perchè?

«Siamo di fronte ad una scelta: o partire con le risorse insufficienti che abbiamo o, attraverso il rinvio, verificare se possiamo reperirne altre, che per noi sono necessarie e indispensabili. Nella mia facoltà quest’anno ci sono ben 250 corsi senza professore, ma al bando di concorso per l’affidamento dei corsi in supplenza, che scade la prossima settimana, non sta rispondendo nessuno. Per protesta. Fino all’anno scorso l’offerta formativa si basava sul lavoro “gratuito” dei ricercatori, i quali invece per contratto dovrebbero fare solo ricerca, senza insegnare. Al massimo potrebbero fare il tutoraggio. Quindi quello che stanno facendo attualmente è semplicemente applicare alla lettera il loro contratto».

 

Forse i corsi sono troppi?

«In molte università effettivamente si potrebbero forse ridurre i corsi per eliminare gli sprechi. Ma non da noi. Secondo i parametri del Ministero, il nostro corso di laurea è già il più virtuoso della facoltà, la quale, non a caso, ha una straordinaria reputazione nel mondo (siamo 34esimi). Per noi tagliare i corsi non significherebbe quindi ottimizzare, ma solo peggiorare drammaticamente la formazione degli studenti, ammassandoli tra l’altro in classi che non possono contenerli. I professori di ruolo che ho non bastano per mantenere un’offerta accettabile, abbiamo la necessità dell’aiuto dei ricercatori; che non sono precari, come si dice, ma stabili, solo che non sono tenuti ad insegnare».

 

Ma perché si attengono alle loro mansioni alla lettera?

«Premetto che in Italia quando ci sono queste proteste c’è sempre il rischio che il rimedio sia peggiore del male, con ricorsi ad ope legis piu’ o meno mascherate. Ma è anche vero che finché i ricercatori verranno giudicati (e pagati) sempre e soltanto per la loro attività di ricerca, è giusto che si dedichino a questa e non alla didattica, anche se a moltissimi di loro fa piacere insegnare.

La loro protesta è rivolta verso il nuovo disegno di legge Gelmini perché sostanzialmente li ignora, oltre a tagliare loro gli stipendi. Insieme a loro anche molti docenti di ruolo si attengono al minimo contrattuale perché sono contrari ad una riforma senza finanziamenti. In Italia la ricerca è nettamente sotto finanziata rispetto alla media degli altri paesi europei. Secondo studi indipendenti siamo al settimo posto nel mondo per ricerca scientifica. Se poi lo rapportiamo a quanto poco investiamo, diventiamo terzi, il che significa che siamo bravissimi e non è vero che costiamo troppo. La domanda è: ma dove vanno a finire i soldi?».

 

Di questo passo cosa succederà nei prossimi anni?

«Probabilmente la situazione peggiorerà ancora. Per legge ogni 10 professori che se ne vanno, uno solo entra. Ogni anno quindi sarà peggio. Quando uno studente si iscrive all’università gli dobbiamo garantire almeno 3 anni di studio, ma siamo tutti consapevoli che in queste condizioni, con la legge vigente, ci dovrà essere un drammatico taglio del numero delle matricole ammesse all’università. Per rispettare i requisiti minimi, già quest’anno dovremmo espellere un terzo dei nostri studenti».

 

Alla fine chi ci rimette sono sempre loro. Ma non hanno diritti?

«Gli studenti hanno il diritto allo studio, come sancito dalla costituzione. Ma quando viene da me un genitore e protesta perché, pagando le tasse universitarie, ha diritto all’istruzione del figlio, gli spiego che con le sue tasse paga un decimo dei costi. Il resto deve pagarlo lo Stato, altrimenti dovrebbe pagare 25 mila euro all’anno. Ma se lo Stato non fa la sua parte, chi avvisa la gente che fra un po’ dovremo chiudere l’università pubblica e farla diventare università di elite?».

 

Ma le facoltà che hanno aperto regolarmente come fanno?

«Molte fanno finta. Sono partite, ma in alcuni casi mancano 2 insegnamenti su 4».

 

Molti rettori dicono che la riforma Gelmini va approvata alla svelta per salvare l’università…

«Diciamo che i rettori con questa riforma avranno molto più potere. E’ sicuramente necessaria ed urgente una buona legge attraverso la quale i cittadini possano chiedere al mondo accademico di rispondere delle scelte fatte, sanzionando i comportamenti scorretti o autoreferenziali e premiando quelli virtuosi. I lati positivi ci sono nella riforma, per esempio il ruolo centrale dei dipartimenti rispetto alle facoltà o il tentativo di mettere un po’ d’ordine.

Ma i lati negativi sono molti di più, soprattutto perchè si vuole imporre un modello unico a tutte le università, non tenendo conto delle diversità. Alcune università, come La Sapienza, hanno più di 100 mila studenti, altre ne hanno 4 mila. Come può funzionare ed essere ottimale un solo modello organizzativo per tutti? Per di più, se la riforma verrà approvata, per farla partire dovranno essere definiti ben 54 regolamenti, mentre stiamo ancora aspettando i regolamenti della precedente riforma Moratti! Saremo seppelliti di burocrazia».

 

Per concludere, la vostra facoltà aprirà quest’anno o no?

«Quando abbiamo deciso di rinviare l’apertura di tre settimane ho passato un week end senza dormire. Siamo perfettamente consapevoli ed estremamente rattristati per il disagio che stiamo causando agli studenti. Se partiremo il 18 ottobre prossimo, probabilmente ci saranno classi da 400 studenti con un solo docente: un effetto devastante sulla didattica e la formazione dei ragazzi. Ammesso che riusciamo a trovare aule dove farli entrare.

Questo è il dilemma. Una scelta terribile. Basterebbe che il governo si impegnasse, magari in un certo numero di anni, a portare l’investimento per la scuola e l’università a livelli degni di un paese come il nostro. Quando fanno i concorsi in Francia, al Cnrs, su dieci posti disponibili i primi cinque sono vinti da italiani. Questo significa che tutto il  nostro lavoro di formazione lo regaliamo ad un altro paese».

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