Nell’agro di Giugliano, il comune campano dalle ottocentesche colonne monumentali, una scoperta archeologica porta alla luce le evidenze di una comunità che, vissuta tra il I sec. a.C. e il III sec. d.C., fu particolarmente dedita al culto dei morti ed eccelse nell’edilizia funebre.
«Ci troviamo – spiega la direzione scientifica dello scavo – a poca distanza dal Foro e dall’Anfiteatro della colonia romana situata nel comprensorio dell’antica Liternum, appunto nel comune di Giugliano». Si tratta di un’intera zona, già da tempo sottoposta a tutela da un vincolo ministeriale, che si arricchisce ora di una «vasta area di necropoli, estesa per oltre 150 mq».

Intonaco del recinto funerario – Foto credit SABAP – Area metropolitana di Napoli
Tra le prime evidenze più interessanti ci sono i recinti funerari che presentano «estesi frammenti d’intonaco bianco e una decorazione più recente in rosso». Tocchi di colore dunque che evidenziano tutta la perizia usata nel realizzare l’ultima dimora terrena dei defunti.
Il pozzo della lustratio
Lo scavo archeologico ha restituito anche un profondo pozzo in muratura la cui funzione è ancora al vaglio degli archeologi che per il momento ipotizzano che «molto verosimilmente il pozzo era utilizzato per fini di culto legati ai riti dell’acqua».
Una risorsa divina quest’ultima, fondamentale per la pratica della lustratio, ovvero della purificazione che da sempre accompagna l’inizio, lo svolgimento e, come nel caso della nostra necropoli, la fine della vita. Si “lustrava”, detergeva e purificava con acqua il corpo del defunto e pronunciando frasi e implorazioni rituali lo si affidava alla benevolenza delle divinità dell’oltretomba.
Edilizia sepolcrale
«Disposte tutt’intono ai setti murari di Liternum – aggiungono gli artefici dello scavo – sono state individuate una ventina di tombe della tipologia a cappuccina, a cassa di tegole e ad enchystrismòs».
È proprio la contemporanea presenza nella necropoli di questi tre stili di tombe appartenenti a diverse fasi temporali di edilizia sepolcrale, che conferma «una continuità d’uso dell’area, perdurante dalla fine del I sec. a.C. fino alla media età imperiale, ovvero il II-III sec. d.C.»
Le tombe a cappuccina consistevano nello scavare una fossa rettangolare all’interno della quale, avvolto in un sudario o in una cassa lignea, veniva steso il defunto. Il tutto era poi coperto con lastre in terracotta inclinate in modo da formare una struttura triangolare somigliante a un “tetto spiovente” o meglio, se vista in sezione, al copricapo dei frati cappuccini.
La tomba a cassa laterizia che sarà più diffusa in età tardo-antica è più frugale, consta infatti di semplici tegole e laterizi che coprono il margine di scavo rettangolare in cui, nel sudario, è avvolto il defunto.
L’enchytrismòs infine è un tipo di sepoltura che ha addirittura origini preistoriche ed è molto particolare perché consiste nel deporre il corpo del defunto in posizione fetale all’interno di un vaso in terracotta ed era particolarmente usata per inumare i corpicini dei bambini defunti.
Epitaffio di un gladiatore
«Tra i ritrovamenti più rilevanti – spiegano gli archeologi della Soprintendenza Archeologia Belle Arti e Paesaggio per l’area metropolitana di Napoli (Sabap – Na) – spiccano diverse iscrizioni funerarie in marmo, alcune delle quali integre, tra cui se ne segnala una che reca l’epitaffio di un gladiatore».
«Un documento quest’ultimo – proseguono gli archeologi – prezioso per la comprensione del ruolo e della memoria di questi combattenti nella società romana».
Non mi è sfuggito però che nell’antichità i familiari dei defunti, soprattutto se appartenenti ai ceti più abbienti, sentivano forte un “dovere”, in latino munus, che consisteva nel celebrare riti funebri in onore dei loro cari scomparsi. Ebbene, questi riti erano caratterizzati dal combattimento che uomini nerboruti ingaggiavano tra loro in onore del defunto. Erano probabilmente i primi gladiatori i cui combattimenti divenuti col tempo dei veri e propri spettacoli, detti appunto munera gladiatoria, avrebbero avuto origine in Campania e dunque non molto lontano dalla tomba nella quale riposa il nostro gladiatore.
Ma munus in latino vuol dire anche “dono” e allora c’è qualcosa di ancora più sorprendente che è emerso dallo scavo di Liternum: la necropoli infatti ha restituito preziosi reperti, incredibili tecniche di sepoltura, ma soprattutto, il comune senso di pietas nei confronti dei defunti e la commovente cura nel seppellire i bambini insieme al dono dei loro giocattoli. Sono queste le evidenze di una civiltà che, senza saperlo e forse senza neanche volerlo, è divenuta una vera comunità.
Cos’altro infatti significa “comunità” se non “cum munus” ovvero “con il dono” che è quello che ognuno di noi fa agli altri quando persegue il bene collettivo?