L’Islam frammentato dell’Egitto

I Fratelli musulmani perdono consenso, mentre imam autorevoli protestano contro una deriva autoritaria del governo. Attenzione però a contrapporre Occidente e Islam: una definizione geopolitica non può essere paragonata a una religione; serve invece accompagnare il processo di rivisitazione del ruolo della fede in campo civile  
Egitto - Porto Said

Le notizie che arrivano dall’Egitto in questi giorni hanno nuovamente attirato i riflettori dell’opinione pubblica mondiale sul Paese del Nord Africa. La partita che si sta giocando, ormai da tempo, è di vitale importanza non solo per la zona a Nord del Sahara e per l’evoluzione dell’attuale fase storica di alcuni Paesi a maggioranza musulmana. L'iniziale "Primavera araba", diventata successivamente "rivoluzione", si sta rivelando un passaggio cruciale, complesso e dai risvolti imprevedibili per le nazioni che ne sono teatro. Si tratta di un momento chiave per l’Islam in generale. La situazione attuale, infatti, mette a fuoco quanto il mondo musulmano sia un mosaico, dove i tasselli sono molti più di quanto appare all'esterno, mentre sono in atto processi complessi e fluidi di riposizionamento. 

L’Egitto di questi giorni è quello delle condanne a morte inflitte ai colpevoli di una strage in uno stadio – decisione politica e non solo legale – ed è quello degli incidenti che ne sono seguiti e dei morti che hanno lasciato sulle strade. Ma è anche la celebrazione del secondo anniversario della rivolta contro Mubarak e la sua dittatura, la risposta della gente al coprifuoco proclamato dal presidente Morsi, che – scrivono testimoni da Port Said, Ismailia e Suez – nessuno rispetta: gruppi di giovani lo sfidano, organizzando partite di calcio notturne. La polizia, poi, pare non riconoscere più l'autorità del ministero degli Interni. C’è anche la voce del popolo che si esprime nelle strade del Cairo, dove piazza Tahrir e il quartiere di Helipolis sono presidiati da migliaia di persone, in una sorta di sit-in di massa che vorrebbe costringere il presidente a rivedere la Costituzione, revocare il governo e far dimettere il procuratore generale da lui nominato.

Ma c’è dell’altro, segni che non hanno a che fare solo con la vita civile, la magistratura e l’amministrazione politica. Vanno al cuore di alcune delle manifestazioni dell’Islam maggiormente seguite nel mondo dai fedeli di questa religione. Lo scorso 24 gennaio, Ahmed al-Tayeb, grande imam di al-Azhar, ha compiuto un gesto importante che deve far riflettere: si è rifiutato di partecipare alle celebrazioni per la nascita di Maometto e da allora vive in una sorta di esilio volontario nel suo villaggio natale vicino a Luxor. È un segno di protesta contro gli islamisti più integralisti. Non solo, un altro autorevole esponente della stessa università, Sheikh Shaheen, nel suo sermone per la preghiera del venerdì, non ha avuto timore di accusare il Consiglio supremo dei militari (Scaf) di ascoltare solo i politici e non le richieste dei giovani. Conosciuto come «l’imam della rivoluzione», ha chiesto alla tivù di Stato di concedere un canale televisivo ai manifestanti, in modo che possano esprimere e diffondere le loro opinioni. Addirittura al-Azhar ha ventilato la possibilità di far uso di un canale televisivo per poter correggere immagini errate sull’Islam.

Tutti fatti che dimostrano il panorama variegato con cui l’Islam si presenta oggi, non tanto nel Paese nordafricano, ma come religione. «I Fratelli musulmani – spiega un giornalista all'agenzia Asia news – sono lontani dalle esigenze della popolazione egiziana. La loro autorità e la loro popolarità stanno scendendo di giorno in giorno, nessuno vuole dialogare con loro perché essi non hanno argomenti e vogliono difendere solo il potere guadagnato». A dimostrazione di questo c'è che anche la popolazione delle campagne, feudo elettorale dei Fratelli musulmani, sta raffreddando i suoi rapporti con il movimento. Per questo in occasione del 25 gennaio gli islamisti non hanno partecipato alle manifestazioni per la "Primavera araba", per organizzare distribuzioni di cibo a metà prezzo nei villaggi e svolgere opere di volontariato. «In questo modo – continua il giornalista egiziano – essi tentano di comprare almeno il consenso degli analfabeti, che però hanno iniziato a comprendere di essere una semplice pedina nelle mani di persone senza scrupoli». È uno scollamento che fa riflettere e, soprattutto, indica che proprio all’interno dell’Islam, non solo dell’Egitto, si sta giocando un momento importante.

Mi pare opportuno approfittare proprio di quanto sta accadendo in questi giorni per riflettere, da europei e occidentali, su quanto assurdo sia lo stereotipo, purtroppo ben radicato nel nostro immaginario, della polarizzazione Occidente-Islam. Cedendo a sottili e martellanti propagande dei media e di una certa politica che usa la religione in modo scriteriato, non ci siamo resi conto di aver messo sulla stessa bilancia una definizione geopolitica – l’Occidente –, tra l’altro anch’essa molto diversificata e piuttosto opinabile in quanto a unitarietà, con una di ambito religioso, l'Islam, appunto. A parte l’incongruenza intellettuale di abbinare e contrapporre due categorie tutt’altro che omogenee e, quindi, con significati e implicazioni diverse, sembra che non vogliamo renderci conto che l’Islam non è uno solo. L’Egitto sta dimostrando al mondo, purtroppo a spese sia di musulmani che di cristiani suoi cittadini, che all’interno di ogni religione si muovono veri e propri cosmi che non possono essere riassunti in un termine, per quanto lato esso sia.

Il caos dell’Egitto è, senza dubbio, un problema civile, politico e un snodo storico, un appuntamento con la storia per un Paese e per il suo popolo. In esso l’Islam, da secoli religione maggioritaria, in questa nazione come in tutto il Nord Africa, dovrà trovare un suo ruolo che non potrà essere quello avuto nel corso dei secoli dell’impero ottomano e nemmeno quello dei decenni scorsi. Si stanno ridefinendo equilibri fra storia, tradizione, religione, politica ed amministrazione civile, vita quotidiana. E tutto questo in un Paese dove la religione di maggioranza non distingue, almeno fino ad oggi, il piano della fede e della sua vita personale e comunitaria da quello della vita pubblica e dell’ordinamento giuridico.

«Prima di tutto salvare l’Egitto», ha dichiarato Youssef Sidhom, direttore di Watani, settimanale di riferimento della comunità copto-ortodossa egiziana, fondato nei primi anni Cinquanta, che conta circa 250 mila lettori. Un monito importante per coloro che in quel Paese sono nati, cresciuti e stanno ora lottando per una nuova fase della sua vita. Ma è anche un monito all’Occidente perché i fatti, che vediamo svolgersi sugli schermi televisivi o sui social media, ci aiutino a capire che deve cambiare anche la nostra prospettiva se vogliamo capire la portata di quanto si sta giocando, purtroppo con le vite di molti, in un Paese non distante dal nostro, con riflessi anche nei nostri vicini di casa che arrivano da quel mondo o che, solamente, professano la stessa religione.

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