L’incognita Trump

Una lettura delle sfide aperte con la nuova presidenza statunitense nell’intervista con il professor Flavio Felice, presidente del centro studi del pensiero cattolico liberale Toqueville-Acton
Donald Trump Ansa

 

Per comprendere la novità, inattesa per molti, dell’elezione di Donald Trump alla presidenza Usa abbiamo sentito il parere di Flavio Felice, professore ordinario di professore ordinario di Storia delle dottrine politiche, Università del Molise, è inoltre presidente del Centro Studi Tocqueville-Acton,  «think-tank indipendente, di ispirazione cattolico-liberale, che intende favorire l’incontro tra studiosi dell'intellettuale francese Alexis de Tocqueville e dello storico inglese Lord Acton».

  

Come si può leggere l’elezione di Donald Trump?

«Come prima cosa, andrebbe ricordato che il conservatorismo e il “nazionalismo” anglosassoni non sono facilmente traducibili con gli analoghi concetti politici che conosciamo nel continente; è impossibile che un conservatore statunitense, per di più nazionalista, ammetta di condividere la prospettiva politica di un conservatore-nazionalista europeo: diversi sono i significati di “tradizione” e di “nazione” che uno statunitense attribuisce a queste parole rispetto ad un europeo; non fosse altro perché per un conservatore statunitense la “tradizione” è John Locke e la nazione è un continente. Detto questo, Trump esprime una rivolta contro ciò che in alcuni ambienti viene chiamata cultural condescension, un’accondiscendenza culturale nei confronti del politicamente corretto e un conformismo politico-culturale che risponde alle battaglie classiche del “radical liberalism” (“progressismo radicale”), ma che non intercetta gli “umori” – per dirla con Machiavelli – del popolo, o quanto meno della gran parte di esso: quando l’estabilshment si appella al popolo con toni populistici, il popolo sceglie l’originale; ed è quello che è accaduto a Hillary. Il peso che la politica “radical liberal” attribuisce a questioni che rientrano nell’agenda dell’ideologia gender, ad esempio, non è percepito come tale dalla grande maggioranza della popolazione statunitense; e non si tratta di essere più o meno acculturati, ma semplicemente di non condividere quella prospettiva culturale. Un’altra chiave di lettura potrebbe essere la constatazione che Hillary Clinton fosse soltanto una “resume candidate”. Una candidata con un ingombrante curriculum, ma senza significativi risultati sui quali poter giocare una campagna elettorale. Non è un caso che una trasmissione satirica come Saturday Night Live abbia ironizzato sulla Clinton, definendola un candidato “in corsa da 30 anni”, senza dire mai quello che ha fatto».

 

Ma anche Trump rientra nel filone del pensiero liberale? In cosa è differente dalla tradizione dei Bush e di buona parte del partito repubblicano?

 

«Se rientra anch’egli nel filone liberale dipende da che cosa intendiamo per “liberalismo” e di certo rompe con la tradizione del Partito Repubblicano, come d’altronde nel 1981 fece anche Reagan. A prima vista sembrerebbe più incline a soddisfare la retorica laissezfairista (il principio  del “lasciar fare” a favore del non intervento dello stato, ndr)   che quella di un libero mercato ordinato da norme conformi al mercato stesso che guida la dottrina economica conservatrice tradizionale. Ad ogni modo, è difficile rispondere a questa domanda, oltretutto Trump presenta anche un tratto mercantilista che confligge con il laissez-faire e incontra un isolazionismo che non è estraneo alla tradizione repubblicana. Credo veramente che la figura di Trump – ad oggi – sfugga dalle categorie politiche con le quali normalmente cataloghiamo i fenomeni politici.

A questo punto, credo sia metodologicamente errato e in definitiva sterile una disputa teorica sul grado di liberalismo di Trump, come su qualsiasi altro personaggio politico». 

 

Cosa è allora importante evidenziare?

« Il dato fondamentale è che egli si troverà, come ogni presidente prima di lui, a fare i conti con un sistema di regole costituzionali e di prassi politiche fondamentalmente modellato sui principi liberali, ben più di quelli europei. E a questi dovrà rispondere giorno dopo giorno, nelle grandi come nelle piccole scelte di governo. Un Trump oggi in Paesi scarsamente liberali come Francia, Spagna, o la nostra Italia sarebbe una sciagura terribile. Non dimentichiamo che i Founding Fathers avevano previsto tutto: “Se gli uomini fossero angeli, nessun governo sarebbe necessario. Se gli angeli governassero gli uomini, nessun controllo – esterno o interno – sul governo sarebbe necessario. Nel prefigurare un governo di uomini nei confronti di altri uomini, questa è la difficoltà più grande: prima bisogna permettere al governo di controllare i governati, poi obbligare il governo a controllare se stesso” James Madison, Federalist, 51».

 

 

La visione delle risorse energetiche che il nuovo presidente repubblicano propone ci espone ad un rischio ambientale enorme?

«Spesso l’ambientalismo è inquadrato solo come una issue progressista, ma non dimentichiamo che in questa fase storica la tutela dell’ambiente sembra essere condizionata alla sottoscrizione di grandi trattati internazionali che prevedono significative cessioni di sovranità da parte degli Stati che vi aderiscono. È dunque normale una ritrosia statunitense (l’ha avuta anche Obama) su questo punto. Non mi aspetto grandi discontinuità di policy da parte della nuova amministrazione

Gli Stati Uniti hanno leggi ambientaliste molto severe e Trump non si è espresso su queste. Probabilmente retrocederà rispetto ad una interpretazione – quella di Obama – che il popolo statunitense immagino abbia giudicato eccessivamente rigorosa. Non dimentichiamo che il Presidente uscente, non avendo una maggioranza in Parlamento, si è servito dei procedimenti legislativi per via governativa; è probabile che questi provvedimenti saranno annullati o modificati. Si parla insistentemente di Sarah Palin come responsabile ministero competente, essendosi occupata di contrattazione con le compagnie petrolifere nei tempi in cui era governatrice dell’Alaska. Di fatto però, i sondaggi (a questo punto presi con le molle) mostrano come pochi americani pensino che il cambiamento climatico rappresenti un’urgenza, in forza della quale mettere in atto drastiche politiche nell’immediato. Una cosa è certa, il popolo americano ha punito coloro che sono saliti in cattedra, pretendendo di avere ragione per il solo fatto di aver occupato una cattedra. Per il resto, quale potrà essere la politica energetica di Trump credo che nessuno lo sappia, temo neanche Trump».

 

Prima parte continua

I più letti della settimana

Tonino Bello, la guerra e noi

Mediterraneo di fraternità

La forte fede degli atei

Edicola Digitale Città Nuova - Reader Scarica l'app
Simple Share Buttons