L’imprevisto sotto il tunnel

Un giovane di belle speranze e un povero: un incontro di Natale che segna la loro vita
Poveri in una baraccopoli

Driiinnn… Macché! Avevo un bel suonare: ormai era evidente che in casa non c’era nessuno. I miei amici focolarini, su cui contavo per trascorrere la serata in compagnia, erano andati a passarla chissà dove. L’ idea era difficile da accettare per uno studente fuori sede come me, lontano dai familiari, dalla ragazza, e che aveva creduto di trovare in quella piccola comunità conosciuta da poco – diciamolo pure – un caldo rifugio.

 

Mi avevano accolto con semplicità, come fossi uno di casa, e cercavo ogni scusa per "capitare" da loro. Non occorreva neanche che li preavvisassi: la porta era sempre aperta. Tranne, purtroppo, quella sera. Il guaio è che non si trattava di una serata come le altre: era infatti la vigilia di Natale. Di qui il mio disappunto. Di qui il groppo che mi era venuto alla gola.

Un ultimo squillo, così, tanto per fare qualcosa, prima di girare i tacchi. Nell’androne del palazzo staccai dal muro la mia vecchia, fedele bicicletta, e uscii. Parma appariva vuota e desolata: una città-fantasma. Tirava un vento gelido che tagliava la faccia. Rare le luci, e irreali. C’erano tutti gli ingredienti per una novella di Gogol.

 

Cominciai a vagare senza meta, rimuginando pensieri tristi, con a lato la bici che non avevo voglia di inforcare (tanto che fretta c’era di arrivare in qualche posto, chi mi aspettava?). Solo il fruscio delle ruote sul selciato mi teneva un po’ compagnia. Davanti all’imbocco di un sottovia illuminatissimo, che contrastava stranamente col buio circostante, mi riscossi; affrontai a testa bassa il vento che s’incanalava lì dentro, ed entrai nella galleria. Non un’anima viva, non un’auto, niente.

 

D’un tratto, più avanti, sul marciapiede opposto al mio, scorsi qualcosa che somigliava a un fagotto. Era un poveraccio, di quelli tipici: barba lunga, capelli grigi scarmigliati, stracci, cartone e plastica per proteggersi dal freddo. L’immagine dell’abbandono e della desolazione: tutto l’opposto di quello che avrei desiderato incontrare. Rannicchiato, sotto quella luce artificiale, sembrava una visione. Non mi parve che si accorgesse di me che passavo.

 

Che fare? Soldi in tasca non ne avevo. Avvicinarmi, mettermi a parlare con lui per riempire quel silenzio opprimente di suoni umani? Ma fin allora mi ero così poco occupato del prossimo, tutto preso dall’ansia di finire quella vita in solitudine e gli studi, cominciare a lavorare, farmi una famiglia, avere una casa mia per non tribolare più (almeno così speravo)…

Passai oltre, guadagnando l’uscita di quel tunnel. Ormai, però, l’immagine del vecchietto cencioso mi si era stampata dentro e il mio rimuginare prese un’altra piega. Che significato poteva avere, per uno nel mio stato d’animo, un incontro del genere? In fondo, sia lui che andava verso il declino, sia io che potevo considerarmi un "giovane di belle speranze" eravamo ambedue segnati, in qualche modo, dalla sofferenza.

 

Mi vennero allora in mente certe frasi, udite a casa di quei miei amici, sul valore del dolore per un cristiano: mi avevano detto che, con la sua morte, Gesù l’aveva reso una realtà preziosa, che va abbracciata, perché oltre quella soglia s’incontra Dio, l’amore. E avevano citato in proposito fatti ed esperienze vissuti da loro e da altri. Discorsi per me inusitati, a cui non sapevo cosa replicare, che però mi trovavano ascoltatore attento.

 

Natale, in genere, evoca il Bambino che nasce; è gioia, serenità: ben lungi da me l’idea del Crocifisso abbandonato da tutti. Fu quel povero più solo di me – quasi immagine di Lui – a farmici pensare.

Non avevo denari, ma qualcosa dovevo pur dargli, almeno per gratitudine. Potevo ricordarlo a quel Dio che egli, con la sua figura, mi aveva evocato, e che mi si svelava come Presenza amorosa, calda, dentro di me, con cui ora poter dialogare: l’amico di quella notte, non più triste e solitaria. Fu un momento inesprimibile di gioia. Chi l’avrebbe detto, in quel Natale?

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