L’Ilva al centro della strategia nazionale

La Corte costituzionale ha rigettato il ricorso dei giudici di Taranto. Confermata la continuità della produzione del siderurgico con la proprietà accusata di disastro ambientale. Una questione che resta aperta
Manifestazione contro l'Ilva

Sul caso Ilva si è consumato uno scontro tra i poteri dello Stato che la Corte Costituzionale, con la decisione del 9 aprile, ha risolto a favore della legittimità della legge 231 varata su iniziativa del Governo Monti il 24 dicembre 2012. La normativa, approvata con urgenza la vigilia di Natale, ha un’importanza che va oltre il caso di Taranto perché detta una regola che si applica a tutti gli stabilimenti riconosciuti di “interesse strategico nazionale”.

In forza di questa norma, il Ministro dell'ambiente, mentre si applicano le disposizioni previste dall’autorizzazione ambientale integrata (Aia), può disporre la prosecuzione dell’attività produttiva fino a 36 mesi, anche nel caso in cui l’autorità giudiziaria abbia adottato provvedimenti di sequestro sui beni dell’impresa.

Il tribunale di Taranto e il giudice istruttore, Patrizia Todisco, hanno atteso i tempi procedurali opportuni per poter sollevare l’eccezionale di incostituzionalità del provvedimento governativo sollevando il contrasto con ben 17 articoli della Costituzione. La vera novità emersa con l’azione della magistratura sono risultati delle perizie epidemiologiche e chimiche, confermate dalle indagini del ministero della salute, che dimostrano il nesso tra incidenza dei tumori ed emissioni industriali finora oggetto di contestazione. L’ordinanza di sequestro delle aree più pericolose dell’acciaieria ha fatto comprendere il pericolo usando un linguaggio accessibile a tutti: «Non un altro bambino, non un altro abitante di questa sfortunata città, non un altro lavoratore dell'Ilva, abbia ancora ad ammalarsi o a morire o a essere comunque esposto a tali pericoli, a causa delle emissioni tossiche del siderurgico».

Risanamento ambientale e operazioni societarie

Secondo la Consulta, «le norme censurate non violano i parametri costituzionali evocati in quanto non influiscono sull’accertamento delle eventuali responsabilità derivanti dall’inosservanza delle prescrizioni di tutela ambientale, e in particolare dell’autorizzazione integrata ambientale riesaminata, nei confronti della quale, in quanto atto amministrativo, sono possibili gli ordinari rimedi giurisdizionali previsti dall’ordinamento». Una formulazione che lascia spazio ad interpretazioni favorevoli ad ulteriori interventi da parte di chi resta convinto che qualsiasi tipo di bonifica debba intervenire interrompendo la produzione. Di tutt’altro avviso il ministro dell’Ambiente Clini. Con un comunicato stampa ha prontamente affermato che «la decisione della Consulta impegna tutti a proseguire con rigore e rapidità nel programma per il risanamento ambientale dell’Ilva di Taranto. La sfida della compatibilità fra salute, ambiente e lavoro si può vincere ed ha bisogno del contributo leale e dell’impegno di tutti».

La direzione dell’Ilva ha immediatamente provveduto a chiedere il dissequestro dei prodotti finiti che l’azienda ha continuato a sfornare nonostante il sequestro dell’area a caldo individuata dai giudici come la principale fonte di inquinamento. Le merci stoccate, pronte alla vendita, raggiungono il valore di circa un miliardo di euro e, secondo quanto ha riferito il presidente della stessa società, Bruno Ferrante, la proprietà sta valutando la possibilità di richiedere il risarcimento dei danni subiti dai mesi di apposizione dei sigilli. La famiglia Riva, proprietaria, appunto, tramite la Riva Fire, dello stabilimento pugliese vede alcuni dei suoi esponenti più in vista, come Emilio e Nicola Riva, padre e figlio, agli arresti domiciliari, accusati del reato di disastro ambientale. Il vice presidente del gruppo, Fabio Riva, altro figlio di Emilio, si è costituito a Londra a fine gennaio del 2013 dopo un periodo di latitanza.  Un’inchiesta di Bricco e Mincuzzi, su “Il Sole 24 ore” del 28 marzo, ha permesso di ricostruire le operazioni societarie del gruppo Riva che mira a «isolare di fatto l’ Ilva provando a proteggere il resto del gruppo industriale e finanziario da ogni iniziativa giudiziaria».

Davanti al Parlamento

Come il mugnaio del racconto di Brecht, che si reca dall’imperatore che potrà rendergli giustizia davanti ai soprusi di un nobile, anche un pullman di tarantini ha sfidato la difficoltà dei collegamenti ferroviari, impegnando la notte prima della data della sentenza per giungere a Roma, davanti al palazzo di Montecitorio. Domenica 7 aprile avevano già sfilato in dieci mila per le vie della loro città, grande la metà dell’enorme complesso siderurgico, con, in testa, un cordone di “camici bianchi”, medici e personale sanitario a testimoniare l’estrema gravità del pericolo alla salute della popolazione. La delegazione arrivata nella Capitale ha lanciato qualche slogan di protesta e lanciato, come segno di speranza, un invito a papa Francesco, esposto in un grande cartellone con il volto sorridente, a pregare per loro.

I rappresentanti delle associazioni tarantine, alla fine, hanno incontrato una delegazione dei deputati del Movimento 5 Stelle, ma non si sa se questi prenderanno una posizione simile a quella assunta con i No Tav in Val di Susa, altra vertenza di interesse strategico nazionale.    Progetti credibili di integrale riconversione del territorio tarantino non se ne vedono all’orizzonte. Da più parti viene ripetuta la centralità dello stabilimento dell’Ilva per l’industria manifatturiera italiana che, ogni giorno, mostra una situazione crescente di sofferenza con aziende che chiudono suscitando allarme sociale. In questo senso si leggono le dichiarazioni di soddisfazione nei confronti della decisione della corte costituzionale da parte dei maggiori sindacati che conferma la linea del recupero ambientale della produzione siderurgica. Come ha affermato Corrado Clini in Parlamento, «non dobbiamo fermare il processo virtuoso che abbiamo avviato» aggiungendo che «avevo previsto che gli effetti a breve termine dell'AIA avrebbero migliorato in modo significativo l'ambiente di Tamburi, salvaguardato il lavoro di migliaia di operai, avviato la riqualificazione industriale del centro siderurgico. I primi concreti risultati si vedono: se penso alle tensioni ed al clima di sfiducia dei mesi passati, posso dire che oggi sono più sereno».

Referendum cittadino

Come prevedibile, di altro avviso le dichiarazioni di Alessandro Marescotti, Peacelink, e Fabio Matacchiera, Fondo antidiossina Taranto, che si dicono convinti di continuare a «cercare un’alternativa» per Taranto davanti al prevedibile fallimento dell’Ilva che lascerà il territorio e la produzione senza bonifiche come già avvenuto con l’industria Caffaro a Brescia.  «I pascoli e il mare restano intrisi di diossina» mente recenti analisi del sangue effettuate su alcuni bambini del quartiere Tamburi hanno rivelato «valori elevati del piombo».

Con queste premesse il comune di Taranto ha indetto per domenica 14 aprile un referendum consultivo sulla chiusura totale o parziale (area a caldo) dell’Ilva. La consultazione, sottoposta al raggiungimento del quorum, non ha valore decisionale e si svolgerà in un clima completamente diverso da quello del 2010 quando fu richiesta da alcuni ambientalisti per smuovere la situazione.

Il dibattito è aperto sui vari significati non previsti di una consultazione relativa ad una materia che va oltre la popolazione chiamata a pagare i costi di scelte di politica nazionale e non solo. Una questione di diritto alla vita piuttosto che di conflitto tra salute e lavoro.

  

 

 



 

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