Le mondovisioni di De Chirico

170 opere a Roma del "pictor optimus". Fra piazze, manichini, archeologie il suo racconto sulla natura.
Giorgio de Chirico

Ci sono artisti che non si finisce mai di scoprire. Mi è accaduto con De Chirico. Attonito, davanti a quelle piazze italiane accecate da una regolarità geometrica degli edifici, delle statue neoclassiche e degli orizzonti che sanno di aurore e di notti boreali, mi sono trovato in una dimensione astratta, senza accorgermene. Perché Giorgio De Chirico è talmente seducente, da subito, che ti avvolge con l’intelligenza lucida, portandoti dove vuole lui: nel regno visionario della luce intellettuale, che vede le cose dall’alto di una storia extratemporale.

 

Così, la Piazza d’Italia con fontana (1954) è e non è allo stesso tempo una “vera piazza”, perché il sole che batte (e non si vede), disegna un triangolo luminoso ben diviso – matematicamente – dall’ombra, in un modo tale da far sembrare il luogo irreale. Eppure, ci sono due piccole persone in fondo, un treno che sbuffa, la vita insomma. Ma la tela trasmette una immobilità plumbea e un silenzio, che fanno degli edifici, del cielo verde scuro, del giallo dell’orizzonte “segni” di un altro mondo: un mondo “metafisico”, “oltre ciò che è naturale”.

 

Cosa è allora la natura per Giorgio De Chirico? Nell’evoluzione-involuzione e poi ancora evoluzione del suo lungo cammino artistico, il pittore si avvicina e si allontana da essa. Ecco la Natura morta con uva e melograno (1923) gravida di colori mediterranei, di chicchi d’uva, di vino: una tela che è un invito alla gioia dei sensi. Oppure, il Ricordo metafisico della rocca di Orvieto (1922), dove l’eroe marmoreo sta al centro della rupe di cui si avverte la porosità  tattile. L’anima “greca” dell’artista si rivela anche in questa sua concezione “fisica” di ciò che esiste, fiori frutta paesaggi.

 

Eppure, ci sono fasi in cui la natura viene da lui “negata”. I manichini con cui ingabbia i sentimenti, condensandoli in figure dis-umane senz’occhi, si tolgono dalla natura, la prevaricano con potenza scultorea. Il trovatore del 1952, fatto di pezzi lignei e meccanici che ne formano l’ossatura sta sullo sfondo di un mare che non si vede: colori accecanti, esaltati da un riflettore alle spalle e di fronte. La natura viene schiacciata, eliminata, da questo eccesso di luce razionale, almeno sembra. Ma lo è veramente, oppure la poesia dolorosa del non-esistere, del non poter esprimersi si cela dentro questa apparizione di una umanità ridotta a manichini? Essa sembra agire sopra un palcoscenico, ed indubbiamente la teatralità è parte dell’anima dechirichiana.

 

In realtà, i manichini sono un inganno per noi. Attori della finzione, in apparenza inutili e vuoti, essi invece concentrano emozioni sentimenti, pensieri ad un livello superiore, non per nulla sono collocati in interni o in esterni stilizzati in linee di perfetta definizione. Chi guarda Le Muse del 1927, a ben vedere, non scorgerà due esseri inanimati, ma vi sentirà una nostalgia per la freschezza della vita nei due riquadri di case e finestre che hanno in grembo. La natura, sconfitta e allontanata, si prende sempre la rivincita in De Chirico.

 

Il discorso su quest’autore onnivoro e unico, potrebbe continuare a lungo, tanta è la varietà dei motivi, dei riferimenti artistici e visivi, dall’antico alla contemporaneità.

 

Ci sono due elementi che dall’inizio alla fine del suo percorso permangono con un amore onnipresente. Il primo è il tema della grecità classica, che gli fa dipingere cavalli bellissimi e cavalieri alati come i fregi del Partendone, con tinte chiare come fossero i vasi della grecità. Il secondo è il mondo contemporaneo, che lo seduce e lo turba, ma da cui non si discosta, spiritualmente, mai.

 

Così, fino all’ultimo, De Chirico, che si definiva senza superbia, il pittore ottimo, all’antica, guarda il presente sognando il mondo antico. Non come una evasione senile, ma come una dimensione di armonia, di continuità storica, capace di inglobare mille altre visioni del futuro. Per questo l’arte dechirichiana è un’arte in “mondovisione”. Dove regna tuttavia non il chiasso, la sonorità, ma il silenzio del mistero, dell’enigma mai sufficientemente svelato: il silenzio della “profondissima quiete” leopardiana.  Anche in una stanza, per questo pittore, ha sede l’infinito, il cielo, o meglio “i cieli dei cieli”. Forse De Chirico ha veramente raccolto in sé tutte le anime del Novecento.

 

La natura secondo De Chirico. Roma, Palazzo delle esposizioni. Fino all’11/7 (Catalogo Federico Motta editore).

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