Le madri iraniane e la democrazia

A Roma le voci delle donne del Parco di Laleh che hanno perso figli e mariti contrari al governo di Teheran
Nasrin Satoudeh

Ovunque campeggiano volti, sono volti iraniani, volti di persone che non sono più tra noi. Arrivati a Roma, portati dalle madri iraniane. Attaccati in maniera posticcia, quasi patetica, alle pareti della Casa internazionale delle Donne, questi volti sono lì come monito per tutti i convenuti, sono muti ma parlano, anzi gridano giustizia.

 

Venerdì mattina nella Capitale si è voluto aprire un capitolo della storia iraniana sconosciuta ai più. L’Iran nel 2009 vide lo svolgersi delle elezioni presidenziali. Ricevuti i risultati elettorali truccati, la popolazione si riversò a protestare per le strade e fu allora che da parte della polizia iniziò una repressione durissima. Molte furono le vittime dell’intervento armato e molte furono le famiglie a cui non fu più permesso di rivedere i corpi dei propri cari.

 

Nacque lì la protesta delle madri, madri senza più figli e mariti, uccisi e spariti durante la repressione. A Teheran, vestite di nero, iniziarono a radunarsi ogni sabato alle 18, presso il parco Laleh (parco dei tulipani). Stavano in silenzio assoluto, con in mano le foto dei cari scomparsi e con attorno la presenza di tante donne accorse per sostenerle nella loro lotta silenziosa. La polizia ben presto mise fine a questa forma pacifica di protesta e le donne subirono torture, incarcerazioni e maltrattamenti. Così nel parco Laleh le manifestazioni sono dovute terminare, ma a portare avanti la loro lotta sono rimasti diversi gruppi di sostenitrici sparsi in tutto il mondo (Francoforte, Parigi, Londra, Los Angeles).

 

Tra le tante voci che si levano oggi c’è quella di Maryam Hekmatshoar, iraniana trapiantata a Francoforte, che continua la lotta non violenta delle madri in lutto iraniane. Tra il 2009 e la fine del 2010 più di cinquecento sono state le vittime della repressione e nei primi due mesi del 2011 il conto è salito a più di cento.

 

Tre sono le loro richieste: la prima è di liberare i prigionieri per reati di opinione, la seconda è processare i responsabili di incarcerazioni, torture, uccisioni, l’ultima è l’abolizione di tortura, lapidazione e condanna a morte.

 

«Aiutateci», è l’appello di Sabri Najafi, un’altra delle intervenute, «nulla è più forte ed inestinguibile del dolore di una madre. Non facciamo politica, chiediamo solo verità e giustizia».

 

Collegata in video-conferenza l’avvocato iraniano e premio Nobel per la pace nel 2003, Shirin Ebadi ha dichiarato: «La pena di morte è uno dei grandi problemi del paese: l’Iran conta, dopo la Cina, il più elevato numero di esecuzioni capitali al mondo, nell’ultimo anno sono triplicate e tra i giustiziati ci sono anche prigionieri politici e minorenni (dato che in Iran, l’età della responsabilità penale è di nove anni per le femmine e quindici per i maschi)».

 

Ebadi racconta poi l’esperienza di una sua stretta collaboratrice, l’avvocato Nasrin Satoudeh (nella foto), molto attiva nella lotta contro la pena di morte e la violenza legale. Nasrin è in carcere da sei mesi, condannata a undici anni di reclusione per la sua battaglia. La donna però continua a combattere anche dietro le sbarre. Avendole permesso di attraversare i corridoi del carcere, per andare ad incontrare i familiari, solo con gli occhi bendati, lei ha opposto il suo fermo rifiuto. In seguito a ciò, per cinque mesi, non ha potuto vedere nessuno dei suoi cari. «Impareranno a stare fermi sulle proprie decisioni» è stata la sua risposta a chi le ha domandato se non fosse più importante per i suoi figli piccoli (di quattro e undici anni) vedere la propria madre. Infine una settimana fa Nasrin ha visto i suoi figli senza benda sugli occhi.

 

Alla conclusione del suo discorso, Shirin Ebadi si rivolge all’Italia: «La politica verso l’Iran non è corretta. In tutta l’Ue si è deciso che a chi non rispetta i diritti umani è proibito l’accesso nei paesi europei, solo l’Austria e l’Italia, per motivi economici, si sono espressi diversamente. Vi prego: invitate i vostri governanti ad isolare chi viola i diritti umani».

 

La parola democrazia per l’Iran sembra un’espressione azzardata, queste donne però sono la prova che è urgente ripensare non solo ai diritti umani, ma anche allo Stato che li deve difendere e promuovere, come le rivolte in Nord Africa stanno dimostrando in questi giorni.

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