L’acqua e la responsabilità dei cittadini

In vista del prossimo referendum abbiamo incontrato Rosario Lembo, Presidente del comitato italiano Contratto Mondiale Acqua- Onlus
Simboliche acqua

Tra pochi giorni saremo chiamati ad esprimere la nostra scelta su quesiti referendari: e i primi due, come sappiamo, chiedono all’elettore di esprimersi riguardo alle norme in materia di gestione dei servizi idrici, e contemplano il “nodo” della privatizzazione di tali servizi.

 

Che l’acqua sia oramai un bene comune prezioso, il cui libero accesso è assimilabile ai diritti umani fondamentali, lo si evince dall’opera di un ampio movimento di opinione e da numerose ong, sia da istituzioni internazionali come l’Unione Europea e le Nazioni Unite: queste ultime hanno poi proclamato il decennio 2005-2015 “Water for Life Decade”, affermando che è ormai tempo di considerare l’accesso all’acqua potabile e ai servizi sanitari nel novero dei diritti umani e che gli Stati nazionali dovrebbero dare priorità all’uso personale e domestico dell’acqua al di sopra di ogni altro uso, affinché tutti possano disporre di una quantità sufficiente di questo bene garantendo buona qualità, accessibilità economica e distanza ragionevole dalla propria casa.

 

La posta in gioco è dunque alta: lo sa bene Rosario Lembo, Presidente del comitato italiano Contratto Mondiale Acqua, che ha risposto ad alcune nostre domande.

 

Dott. Lembo, l’acqua è un bene comune, eppure in Italia il 60% delle risorse idriche viene disperso per la cattiva e obsoleta gestione degli impianti idrici. L’ingresso di finanziatori privati non aiuterebbe a creare le risorse necessarie a eliminare gli sprechi e dare modo alle fasce più deboli di accedere veramente in modo libero all’acqua?

«Sono d’accordo nel dire che le nostre risorse idriche sono state gestite male, a volte con negligenza e senza conoscere a fondo conformazione ed esigenze del nostro territorio. Il problema del pubblico dunque esiste, ma la soluzione non passa attraverso la privatizzazione che invece crea nuovi problemi.

Ciò che dobbiamo cambiare è la politica sull’acqua, facendo in modo che tutti i cittadini si prendano una responsabilità su di essa. Dare in mano al privato la gestione di un bene tanto prezioso da essere chiamato oro blu, affermerebbe un principio pericoloso e inquietante per le generazioni future: che l’acqua non è un diritto, ma una merce di scambio sulla quale si può creare profitto. Gli scenari che si aprono sarebbero disastrosi».

 

Cosa bisognerebbe fare allora?

«Dobbiamo tornare a una politica che renda il cittadino protagonista e destinatario del proprio operato. Noi tutti dobbiamo assumerci una nuova responsabilità sui beni del creato, accordandoci su delle regole basilari del vivere insieme. Non possiamo delegare questo compito al privato, e cioè al mercato. Dobbiamo riprendere in mano la nostra capacità di pensare come singoli cittadini e come soggetti di una comunità, per trovare soluzioni alternative, condivise, che rendano l’acqua un bene comune non solo sulla carta, ma nelle situazioni concrete. Abbiamo bisogno di rafforzare la sicurezza idrica contro i problemi dell’inquinamento e del cambiamento climatico. Per fare questo non dobbiamo privattizzare ma cercare idee innovative e buone pratiche da attuare. Il lavoro non manca».

 

 

Perché secondo lei tutelare il principio dell’acqua pubblica è tutelare l’interesse dei più deboli?

 

«Con la privatizzazione noi faremmo dell’acqua una sorta di “borsa finanziaria” con conseguenze nefaste per le generazioni future. Diminuirebbero i controlli, aumenterebbero le tariffe, sarebbe come chiedere al cittadino di pagare per l’ossigeno che respiriamo, per il sole che ci riscalda. Ma questi sono beni creati per tutti, sui quali nessuno può guadagnare se non la comunità nel suo insieme. E cosa succederebbe ad una famiglia povera che non può pagare la fornitura di acqua? Le esperienze nel mondo dimostrano non solo che la privatizzazione esclude i più poveri dall’accesso all’acqua potabile, ma crea le condizioni per una speculazione sulla sua gestione anche in relazione alla sicurezza delle derrate alimentari. Per non parlare della criminalità organizzata che avrebbe tutto l’interesse a entrare nel mercato privato dell’oro blu».

 

Quali sono le esperienze negli paesi?

 

«Prendiamo il Cile, dove nei giorni scorsi 100.000 persone a Santiago hanno protestato contro la costruzione di cinque nuove dighe da parte dell’italiana Enel, proprietaria dell’86% delle acque cilene. Tali sbarramenti sommergeranno 5.600 ettari di un raro ecosistema forestale e ciò provocherà impatti socio-ambientali e problemi di inquinamento consistenti. Lì la privatizzazione dell’acqua è avvenuta poco dopo la presa di potere di Pinochet, ma oggi sono in molti a chiedere di tornare alla proprietà pubblica per la degenerazione che la proprietà privata ha portato senza risolvere i problemi che invece sono rimasti».

 

Cosa fare dopo il referendum?

«Ripensiamo subito “insieme” la politica dell’acqua e sull’acqua che abbia al suo centro la persona e la comunità: possiamo trovare le soluzioni più adatte a risolvere i problemi degli sprechi e prevedere le necessità delle generazioni future che abiteranno le nostre città».

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