La Turchia vuole partecipare al processo democratico

Intervista a Cenap Mustafa Aydin, studioso turco e presidente dell'Istituto Tevere, un centro per il dialogo interreligioso attivo sul territorio romano. «Il primo ministro sta sfidando il suo popolo con toni aggressivi e scelte che minano la convivenza pacifica con le varie correnti islamiche presenti nel Paese»
Turchia

Conosco da vari anni Cenap Mustafa Aydin, presidente dell’Istituto Tevere, un centro di dialogo interreligioso e interculturale molto attivo nel panorama romano. Cenap, oltre ad essere un amico, è anche un partner proprio nel campo del dialogo, oltre che una persona con la quale si intavolano spesso discussioni e scambi su questioni socio-politiche e religiose. Ci siamo trovati spesso a intervenire in dibattiti pubblici e tavole rotonde su problemi di attualità e di integrazione socio-religiosa.
In questi giorni, davanti a quanto sta accadendo in Turchia, il suo Paese, abbiamo avuto un confronto sulla situazione attuale.


Mi ha colpito quanto mi ha confidato iniziando il nostro scambio di vedute: «Tengo a fare una premessa. Io stesso non so bene cosa stia succedendo». Ho apprezzato molto questa ammissione, a fronte di una sicurezza spavalda e, dobbiamo riconoscerlo, superficiale di un certo tipo di media che mostra di saper leggere fra le pieghe di quanto sta avvenendo in un Paese complesso come la Turchia.

Cenap, d’altra parte, sottolinea come «la questione sul tappeto nel suo Paese non è semplicemente un problema da ambientalisti. Si tratta di un discorso molto ampio». Riconosce che il primo ministro Erdoğan si trova in una situazione tutt’altro che facile. «Erdoğan – mi ricorda – è arrivato al potere all’inizio del millennio in nome di uno sforzo di rivalutazione del processo democratico, assicurando all’opinione pubblica partecipazione e difesa dei diritti umani. In questi anni il primo ministro non ha avuto vita facile. Ci sono stati tentativi di colpo di Stato. La gente, tuttavia, ha sostenuto il suo partito non tanto per favorire un processo di islamizzazione, quanto per la possibilità che intravedeva di una vera crescita democratica».

Uno dei nodi fondamentali che stanno dietro agli episodi di questi giorni è legato alla mancata realizzazione del progetto della nuova Costituzione, approvato con il referendum del 2010, che aveva dato mandato al governo di formare una Costituente che desse al Paese una carta costituzionale civile, a fronte di quella militare che risale al 1982. «Il fenomeno interessante in occasione di quel referendum – mi fa notare il giovane turco – è che molti che non avrebbero votato il partito del primo ministro si sono mostrati favorevoli alla possibilità di una nuova Carta costituzionale proprio per una possibilità di democrazia partecipata. Tuttavia in questi due anni non sembra esserci stato il seguito sperato e non si sono fatti passi avanti apprezzabili».


Ma quello che più sembra preoccupare il mio interlocutore è che «negli ultimi tempi, soprattutto nei mesi scorsi, il linguaggio del primo ministro e del partito è diventato esclusivista anche nei confronti dei musulmani. Sembra che il partito rappresenti l’unica garanzia per il futuro del Paese, escludendo qualsiasi altra possibilità democratica. Erdoğan – riconosce Aydin – pare aver perso la capacità di valutare le possibili reazioni della gente comune». È necessario tenere presente, infatti, che la democrazia in questo Paese si trova in un processo di evoluzione. L’opinione pubblica, sempre più, non si accontenta di votare solamente, ma desidera una partecipazione reale alla gestione delle decisioni e del bene pubblico. Non sono le sue decisioni ad aver scatenato la reazione, ma il suo linguaggio e il modo in cui le ha annunciate. «Il divieto di pubblicizzare alcolici non era una decisione errata in sé. Si trattava, infatti, di eliminare una possibile piaga sociale. Si poteva, quindi, spiegare adeguatamente la decisione e limitare la vendita soprattutto nelle vicinanze di luoghi frequentati da bambini e minorenni, persone a rischio. Il tutto poteva essere compreso per non creare problemi ulteriori al futuro sociale della Turchia».

«La stessa cosa riguarda un altro dei contenziosi: la costruzione del terzo ponte sul Bosforo. Il problema, al di là della costruzione in quanto tale, è il nome che si è detto di voler dare alla nuova opera pubblica, certamente non gradito alla comunità Alevita (una delle sette dell’Islam, molto numerosa in Turchia con i suoi dieci milioni di membri.)». Si tratta di una questione che rischia di mandare in fumo un lungo processo di riconciliazione, in corso da tempo, fra il governo e la comunità Alevita. Si erano fatti passi avanti notevoli, proprio da parte del governo di Erdoğan, che pare non aver valutato, anche in questa vicenda, il rischio di mandare in fumo l'impegno nei confronti dell’integrazione delle varie comunità nel quale è attivo da tempo.

«Ma il primo ministro – è il parere dell’amico turco residente a Roma – ha esagerato anche nel definire con un termine che potremmo tradurre come "barboni" coloro che manifestavano. Senza dubbio una grande mancanza di tatto e di rispetto. A questo si è aggiunto un linguaggio aggressivo e molto sicuro di sé e del proprio potere: l’assicurazione di riuscire a fermare a casa il 50 per cento dei manifestanti. Si tratta di proclami che suonano come sfide e sono segni di mosse non ben calcolate».

La questione aperta, tuttavia, è il tipo di folla che si è riversata sulle strade. «Si tratta di uno spaccato assolutamente eterogeneo: giovani, anziani, artisti, intellettuali, operai. Tutti con una intenzione chiara e inequivocabile, quella di promuovere una partecipazione ai processi decisionali e di partecipazione politica civile. A fronte di questa partecipazione di popolo, davvero trasversale, i manifestanti non dovevano arrivare a distruggere per affermare la propria posizione. È per questo che in molti si domandano se ci sono infiltrazioni esterne o manipolazioni da parte di terzi. Si tratterà di chiarire eventuali interventi di forze estranee, come si dovrà accertare le responsabilità di una polizia che ha senza dubbio esagerato nella reazione nei confronti dei manifestanti».


Un mondo, quello turco, dunque, in grande evoluzione. Come alcuni hanno fatto notare, il partito al governo e il primo ministro stanno vivendo la loro crisi più difficile da quando sono al potere. È segno che il popolo turco ha acquisito una nuova maturità politica e sociale e non è facilmente manipolabile. A questo i dirigenti della nazione devono prestare particolare attenzione. I passi che il presidente Gül, con il suo messaggio conciliatore verso la nazione, e il vice primo ministro, con il suo incontro con i rappresentanti dei manifestanti, hanno cercato di fare è senza dubbio prezioso e può aiutare lo stesso Erdoğan a correggere la mira.

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