La strategia Fiat

Le decisioni del Cda riunito negli Usa. L’opportunità di andare oltre la reazione immediata alla ricerca di nuove relazioni sociali.
Fiat

Reazioni preoccupate in Italia dalle decisioni esternate dalle colline di Auburn, vicino il lago Michigan negli Usa. È qui che si trova la mastodontica sede della Chrysler, seconda solo al Pentagono dicono le cronache, dove si è riunito il Consiglio di amministrazione della Fiat per presentate i dettagli dei progetti societari e industriali della multinazionale dell’auto proiettata nella competizione internazionale.

 

Ministri, regioni, comuni e sindacati italiani hanno appreso in questo modo molto irrituale le novità dello spostamento della produzione della nuova monovolume in programmazione dal 2011 da Torino in Serbia. Basta andare a visitare il sito web della città di Kragujevac pieno di immagini di catene di montaggio per rendersi conto della voglia di rinascita dalle macerie in cui era stata ridotto lo storico stabilimento della Zavstava distrutto dai bombardamenti delle forze Nato nella tragica guerra dei Balcani.

 

Il governo serbo è diventato socio di minoranza della società costruita con la Fiat, ha assicurato investimenti per centinaia di milioni di euro, definito una sorta di moratoria fiscale per dieci anni e costruito infrastrutture necessarie per l’azienda.

Una notizia che spazza via le persone e lascia in piedi gli edifici è stato invece l’effetto della crisi finanziaria che negli Usa ha travolto ciò che sembrava inaffondabile, la General Motors, assieme alla Chrysler. In quest’ultimo caso la scommessa della rinascita è stata affidata ai prestiti statali e all’intervento del fondo pensionistico dei lavoratori che detiene la maggioranza del capitale sociale della nuova società, ma non ha membri con diritto di voto nel consiglio di amministrazione.

Seppure sempre più lontane da Torino, le vicende della Fiat fanno riemergere le sempre attuali istanze, nella dialettica tra eguaglianza e libertà, che un grande studioso piemontese, come Norberto Bobbio, poneva sulla democrazia che stenta a diventare sociale. C ome esemplificato all’interno della fabbrica dove il potere di decisione è sempre più affidato solo ad una parte. Esplicito, in tal senso, il richiamo di Marchionne alla mancata serietà dei sindacati italiani che non accettano lo stato di fatto determinato dalla globalizzazione.

Nella conferenza stampa, pur stando dall’altra parte dell’oceano, ha fatto presente il caso singolo del delegato sindacale abruzzese licenziato perché pur stando in permesso, dopo aver accompagnato la figlia da una visita medica, aveva partecipato ad una manifestazione di protesta documentata dalla stampa. Vicende private che assumono la veste di casi esemplari, come i familiari che stazionano sotto le mura della città di Melfi dove altri operai si sono issati come forma estrema di protesta contro un licenziamento avvenuto con l’accusa di aver ostacolato il lavoro di un robot.

La questione, coinvolgendo lo stabilimento Mirafiori, non è più legata al Meridione come la chiusura annunciata di Termini Imerese, che non suscita grandi reazioni. La decisione di non concedere il previsto premio di produzione di 600 euro ai dipendenti italiani (complessivi 18 milioni di euro) pur di fronte a risultati complessivi che vanno oltre le aspettative ( utile della gestione ordinaria del primo semestre passato dai previsti 256 milioni ad un miliardo di euro) viene giustificata da Marchionne con il fatto che «l’Italia è l’unico Paese dove il Gruppo ha perduto soldi».

Un messaggio che va oltre il mancato plebiscito al piano da parte dei lavoratori di Pomigliano D’Arco e che dovrebbe permettere un dialogo delle parti sociali molto più ampio di quello delle reazioni a decisioni temute ma già prevedibili. La vera sfida è quella di valorizzare il patrimonio di relazioni che, pur nel conflitto, hanno cercato strade comuni di soluzioni possibili. Senza ripartire dalla tabula rasa.

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