La profezia della pace

Nella lettera a Putin e nell’omelia di piazza san Pietro il papa continua a denunciare la guerra e a proporre il perdono e la fraternità come uniche armi per uscire dalla spirale di violenza
Veglia per la pace in piazza San Pietro

Il tempo si è davvero fatto breve. E l’intervento militare americano in Siria sembra sempre più vicino. In questo tempo "accorciato" si è posta la profezia di papa Francesco. Come i profeti dell’Antico Testamento ha parlato e scritto ai potenti della Terra, riuniti nel G20 di San Pietroburgo tramite il presidente pro tempore Putin.

In questa lettera si misura sul tema ordinario dell’incontro, la riforma delle organizzazioni internazionali, in modo che l’economia mondiale possa permettere una vita degna a «tutti gli esseri umani, dai più anziani ai bambini ancora nel grembo materno… ad ogni abitante della Terra, persino a coloro che si trovano nelle situazioni più difficili e nei luoghi più sperduti».

La sfida della sicurezza alimentare appare decisiva se il mondo e le sue popolazioni vogliono avere un futuro. Ciò che si contrappone a questo sono i conflitti armati, la guerra nelle sue multiformi vesti. Dice ancora il papa che «le guerre costituiscono il rifiuto pratico a impegnarsi per raggiungere quelle grandi mete economiche e sociali, che la comunità internazionale si è data, quali ad esempio gli obiettivi del millennio».

Anzi il papa insiste dicendo che i conflitti armati e le guerre moltiplicano povertà e sofferenze nella popolazione civile. E pone la pace come condizione necessaria di ogni sviluppo. Non è lo sviluppo che genera la pace, ma al contrario senza pace non c’è sviluppo, rovesciando così la prospettiva di Paolo VI, che nel 1967 fa della pace il nome nuovo dello sviluppo.

Come narrazione concreta di tutto questo egli pone la situazione del Medio Oriente, in particolare della Siria, dove «duole constatare che troppi interessi di parte hanno prevalso da quando è iniziato il conflitto siriano, impedendo di fermare l’inutile massacro a cui stiamo assistendo». Il papa conosce bene la tragedia dei centodiecimila morti siriani, nei due anni di guerra, con l’uso devastante delle armi chimiche, e la scelta dell’Occidente di armare l’opposizione, che ha cercato di duplicare i risultati della guerra in Libia.

Di fronte a coloro che pensano che la guerra  può evitare la guerra, papa Francesco indica un orizzonte totalmente diverso: «A tutti loro (i leader del G20), e a ciascuno di loro, rivolgo un sentito appello, perché aiutino a trovare vie per superare le diverse contrapposizioni e abbandonino ogni vana pretesa di una soluzione militare».

Ecco il punto dirimente: è vana la pretesa di una soluzione militare, le armi non producono la pace, se non quella dei cimiteri. È finito il tempo della giustificazione della guerra. La guerra non ha più cittadinanza. Ecco la profezia di papa Francesco, che si è manifestata in tutta la sua forza nella liturgia di preghiera e di digiuno per la pace di sabato in piazza San Pietro.

L’omelia ha spiegato il fondamento storico/spirituale di questo giudizio profetico. Nell’in principio di Dio il mondo è «cosa buona», ha la misura della pace e della fraternità, «una fraternità reale», fondata da Dio stesso e sigillata dal suo agire, ma  la storia degli uomini ha ben altre caratteristiche, «la violenza, la divisione, lo scontro e la guerra».

In mezzo c’è il peccato dell’uomo, che «quando pensa solo a sé stesso, ai propri interessi, e si pone al centro, quando si lascia affascinare dagli idoli del dominio e del potere, quando si mette al posto di Dio, allora guasta tutte le relazioni, rovina tutto; e apre la porta alla violenza, all’indifferenza e al conflitto».

Ciò che cambia la storia è il peccato dell’uomo. È in forza di questo peccato che l’uomo spezza la «casa buona di Dio» e «arriva ad alzare la mano contro il fratello per ucciderlo». La fraternità generata e donata da Dio è violata e spezzata dall’omicidio di Abele e si cade così nel caos, dove è violenza, contesa, scontro, paura. Ma, nel cuore del caos, Dio chiede conto a Caino della sorte del fratello Abele e Caino risponde in modo sorprendente: «Non lo so. Sono forse io custode del mio fratello?».

Qui la profezia di papa Francesco si rivela in tutta la sua forza: «Sì, tu sei custode di tuo fratello. Essere persona umana significa essere custodi gli uni degli altri. E invece, quando si rompe l’armonia, succede una metamorfosi: nel fratello da custodire in ogni violenza e in ogni guerra noi facciamo rinascere Caino. Noi tutti! E anche oggi continuiamo questa storia di scontro tra fratelli, anche oggi alziamo la mano contro chi è nostro fratello».

Nell’in principio Dio dona la fraternità, che non è legata a interessi, a legami di sangue, o di razza, ma ha il suo fondamento nell’agire di Dio. Per questo la fraternità rimane anche nella violenza che la contraddice. Noi uccidiamo sempre non il nemico, ma il fratello, perché anche il nemico è nostro fratello. Certo nella violenza e nella guerra rinasce Caino, ma anche Caino è nostro fratello.  

E se oggi in Siria e in tanti luoghi del mondo è rinato Caino, questo non significa che la guerra ha cittadinanza, perché la violenza e la guerra moltiplicano sé stesse e «portano solo morte, parlano di morte. La violenza e la guerra hanno il linguaggio della morte». Sono parole fortissime, che pongono il giudizio di Dio su ogni guerra, a partire da quella in atto in Siria, che si vorrebbe sconfiggere con la guerra. Si vorrebbe uccidere la bestia con la bestia stessa, ma questa è una illusione che produrrà ulteriore sofferenza e morte.

Per uscire da questa spirale, bisogna ripartire dalla fraternità, sin dall’in principio di Dio, che ha il suo compimento sulla croce. Dice il papa, con tutta la sua fede povera e disarmata: «La mia fede cristiana mi spinge a guardare alla croce: come vorrei che per un momento tutti gli uomini di buona volontà guardassero alla croce! Lì si può leggere la risposta di Dio: lì, alla violenza non si è risposto con la violenza, alla morte non si è risposto con il linguaggio della morte. Nel silenzio della croce tace il fragore delle armi e parla il linguaggio della riconciliazione, del perdono, del dialogo e della pace».

La fraternità dell’in principio si compie sulla croce, la risposta alla guerra non è la guerra ma il perdono, il dialogo e la riconciliazione, che nascono dalla fraternità in Dio e generano la fraternità sulla Terra. In questo rinasce  Abele e non Caino. Questa non è una pia parola per i credenti, ma il Vangelo della fraternità per tutte le donne e per tutti gli uomini di buona volontà.

E insiste il papa, quasi in forma di supplica, rivolgendosi a ogni donna e a ogni uomo: «Ognuno si animi a guardare nel profondo della propria coscienza e ascolti quella parola che dice: esci dai tuoi interessi che atrofizzano il cuore, supera l’indifferenza verso l’altro che rende insensibile il cuore, vinci le tue ragioni di morte e apriti al dialogo e alla riconciliazione; guarda al dolore del fratello – ma penso ai bambini, soltanto a quelli… guarda al dolore di tuo fratello – non aggiungere altro dolore, ferma la tua mano, ricostruisci l’armonia che si è spezzata; e questo non con lo scontro ma con l’incontro! Finisca il rumore delle armi! La guerra segna sempre il fallimento  della pace. È sempre un fallimento per l'umanità».

La riconciliazione, il perdono, la pace e il dialogo chiamano a leggere la storia non come storia di guerra, ma come storia di fraternità: «Guarda al dolore del fratello…. pensa ai bambini… guarda al dolore del tuo fratello e ferma la tua mano». Questo è il realismo unico ed efficace che cambia il mondo: quello della fraternità del Vangelo e del perdono.

Alla vigilia di giorni drammatici, più di quelli vissuti fino ad ora, il papa ci indica la via della pace, oltre antiche giustificazioni della guerra, oltre le astuzie della ragion politica e di Stato, oltre i dialoghi astuti e le diplomazie furbe e talora capaci di ricattare i Paesi deboli.

Una pace che sta sulla croce e che è visibile sul volto sfigurato dei piccoli e nel loro grido muto. Una pace che cambia la storia, indicando che non c’è alternativa al perdono e alla fraternità, che davvero fecondano la Terra.

Tutto questo apre alla conversione dei cuori e della politica, che appare cieca, muta e zoppa di fronte a un papa che nella sua debolezza ha detto tutta la verità del Vangelo, arrivando al cuore di tutti i popoli, in primo luogo del popolo della Siria e dei popoli del Medio Oriente.

La lettera a Putin e l’omelia di piazza san Pietro costituiscono una nuova profezia della pace, che papa Francesco consegna a tutti, donne e uomini di buona volontà. Quello che sembrava impossibile è avvenuto e la Chiesa stessa è stata messa da papa Francesco sulla frontiera dell’impossibile, là dove solo Dio può agire e ci dona la sua pace, non come la dà il mondo, ma come la danno le vittime: una pace disarmata e proprio per questo capace di disarmare i violenti e di ricomporre nel perdono l’unità e la fraternità del mondo.

Questa profezia significa non solo una  rinnovata  dottrina del Vangelo della pace, ma un modo nuovo di essere della Chiesa nella storia. La Chiesa povera e dei poveri, sognata da papa Francesco, contiene nel suo mistero una Chiesa pacifica e dei pacifici, che saranno chiamati figli di Dio, come dicono le beatitudini, perché hanno fatto la pace come il Figlio, per mezzo del sangue della croce.

La Chiesa dei pacifici  testimonia e rende visibile il realismo della pace evangelica, che contiene in sé, nella debolezza, la forza disarmata, che sconfigge alla radice la bestia e l’odio fratricida e per questo, come dice Bonhoeffer «sa osare la pace per fede».

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