La preghiera dei malati

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Uno degli ospedali più importanti della Lombardia, reparto di oncologia. Da qualche giorno avevo messo in programma di rendere visita a un amico ammalato. Ma nel frattempo mi avevano chiesto di scrivere qualcosa sul “rosario dei malati”, e allora mi sono detto che era l’occasione giusta per far parlare proprio loro, coloro che nella malattia e nell’ambiente sanitario quotidianamente usano la preghiera più popolare e più nota. Prima ancora di incontrare il mio amico, ecco allora il cappellano, don Beniamino. È con lui che ha inizio la conversazione, in attesa del dott. Carlo e di Matilde, volontaria ospedaliera. Dal suo punto di osservazione, come cappellano, in questo “crocevia dell’umanità” che è l’ospedale, dice qualcosa al malato questa preghiera? “Basterebbe visitare un santuario come Lourdes per accorgersi come il rosario sia la preghiera più comune a tanti ammalati. Ogni persona che soffre, in particolare nella solitudine del proprio dolore, si ritrova a rivivere, magari inconsapevolmente, alcuni momenti della Passione di Gesù, e cioè i misteri dolorosi ricordati nel rosario. Penso ad esempio al momento dell’angoscia, della paura, della tristezza vissuta da Gesù nel Getsemani, quando si trova solo, di fronte all’imminenza della morte, lì “incominciò a provare paura e angoscia, tristezza fino alla morte” (Mt 26,38). Anche il papa nella sua recente lettera sul rosario ricorda come in quell’ora dell’orto degli ulivi “Cristo vive un momento particolarmente angoscioso di fronte alla volontà del Padre, alla quale la debolezza della carne sarebbe tentata di ribellarsi” (n° 22). Il malato, e direi ogni persona sofferente che ha la fede, quando incontra Gesù nella sua agonia, si trova come coinvolto in quello stesso rapporto del Figlio col Padre, vissuto da Gesù. Un rapporto di piena fiducia, direi di “confidenza”, che lo porta a chiamare Dio “papà”, come Gesù nel Getsemani, “abbà” (Mc 14,36), un’espressione in aramaico, la lingua parlata dal Cristo, che dice familiarità del figlio col padre. Ma anche in noi, come afferma Paolo, lo Spirito grida: “Abbà-Padre” (cf. Rm 8,15; Gal 4,6). “Ma è soprattutto nel grido di Gesù sulla croce, “Dio mio, Dio mio perché mi hai abbandonato?” (Mt 27,46) che ogni ammalato si ritrova: è l’esperienza di una solitudine estrema, fino a sentirsi abbandonato da tutti, anche da Dio. È proprio per questa condivisione del Dio fatto pienamente uomo, che può avvenire una misteriosa intesa e comunione tra i due sofferenti”. Dott. Carlo, lei come medico credente, non può avere certo degli sconti di fronte a tanti perché del dolore, della morte. Come se la cava coi malati e coi loro parenti? “Come credente ho una responsabilità in più. Ho la consapevolezza, anche se non sempre me lo ricordo, che curando il malato mi prendo cura di Cristo. La preghiera è una terapia quotidiana e necessaria anche per me. In particolare il rosario, quando riesco, mi aiuta in questo. Trovo importante l’affermazione del papa: “Il rosario, favorendo l’incontro con Cristo nei suoi misteri, non può non additare anche il volto di Cristo nei fratelli, specie in quelli più sofferenti” (n° 40). E devo dirle che i malati e i loro parenti percepiscono questa mia convinzione, anche se non sempre è espressa a parole”. Matilde è invece è una volontaria ospedaliera. Suppongo non sia sempre facile stare accanto agli ammalati, soprattutto in certi momenti” “Mi sono ritrovata in questo servizio dopo aver assistito mia madre ed aver costatato come, a volte, ci sono ammalati che non hanno nessuno accanto a sé, magari anche solo per dar loro un bicchiere d’acqua. Sì a volte non è facile, anche perchè ogni persona è unica. Per questo cerco di passare in chiesa prima di venire in servizio in corsia. Anche oggi. Lì mi sono riletto quello che il Santo Padre dice nella lettera sul rosario: “Come contemplare il Cristo carico della croce e crocefisso, senza sentire il bisogno di farsi suoi ‘cirenei’ in ogni fratello affranto dal dolore o schiacciato dalla disperazione?” (n° 40). Mi ritrovo un po’ in quello che dovrei essere come volontaria”. Ritornando a lei, don Beniamino, suppongo che reciterà il rosario assieme ai malati. Quale momento dei misteri che le sembra più adatto? “Devo rivelarle anche il senso del limite che a volte ho sperimentato passando accanto ai malati. A che serve? Me lo sono chiesto qualche volta. Soprattutto nel non poter far nulla di fronte alla situazione dei malati terminali. Ma proprio allora qualcuno mi ha aiutato a capire come in quel mio “stare” accanto e condividere quel dolore c’è tutto. Com’è avvenuto per Maria ai piedi della croce. Anche qui, il papa della lettera sul “dolore salvifico”, che ha vissuto prima di scrivere sul dolore, parlando del rosario dice anche che “i misteri del dolore portano il credente a rivivere la morte di Gesù ponendosi sotto la croce accanto a Maria, per penetrare con lei nell’abisso dell’amore di Dio per l’uomo e sentirne tutta la forza rigeneratrice” (n° 22)”. Dott. Carlo, voi medici, sempre a contatto col dolore, non provate una crisi di rigetto? “L’esperienza del dolore non si vive solo in ospedale, accanto ai malati. È comune all’essere umano. Forse qui è più evidente. Non è però evidente solo il dolore, ma anche l’amore. Mi spiego: anche nel mondo dell’arte, prendiamo ad esempio Dante che scrive il Paradiso nella prova dell’esilio, o Michelangelo che dipinge il Giudizio universale mentre vive un tormento spirituale profondo, o Beethoven che compone la Nona sinfonia nella sordità assoluta. Proprio lì hanno espresso il meglio che avevano dentro di sé. Così nel dolore e accanto al dolore d’ogni ammalato emerge un amore distillato: dei familiari, degli amici, degli operatori sanitari. A volte è inimmaginabile la dedizione e la fedeltà di queste vicinanze. È l’amore che dà forza e significato a tanto dolore. Ed è per l’amore che spesso si superano situazioni che sembravano clinicamente perse. Del resto anche il papa, sempre nella lettera citata, afferma che “la passione è il culmine della rivelazione dell’Amore” (n° 22). Certamente questa luce fa ritrovare quel senso che diversamente lascerebbe tanto dolore nel buio più totale”. Finalmente ecco Francesco, l’amico ammalato. Sapevo di essere atteso. Accanto a lui, la moglie. Il suo volto ha un pallore che sembra confondersi con il nitore delle lenzuola. Ma i suoi occhi sono luminosi. Dopo le prime notizie sul suo stato di salute, mi accorgo che sul comodino c’è una corona del rosario.Vedo che trovi il tempo anche di pregare… “In questi ultimi giorni, dopo l’intervento, mi è un po’ più difficile. Ma a volte ascolto il rosario recitato alla radio. Mi aiuta a pregare, soprattutto nella notte, quando le ore non passano mai. È bello accorgerti che qualcuno ti sta accanto, prega con te. E ti senti collegato con tante persone. Non so come andrà con questa malattia, ma mi serve molto fermarmi nell’Ave Maria quando si dice: “Prega per noi, ora””. Cerco di vivere così l’attimo presente. Non sempre riesco a ripetere il “sia fatta la tua volontà” nel Padre nostro. Mi pare però che anche per Gesù non sia stato facile farlo. A volte mia moglie è preoccupata, lasciamelo dire, per quando arriverà quel momento, quell’ora, quel momento di lasciarci. Io le ho detto che sarà anche quello un “momento”. E poi quante volte l’ho ripetuto alla Madonna: “Prega per noi ora e nell’ora della nostra morte”. Lei ci sarà anche in quel momento, non mancherà perché è una vera madre. Prima mi sono messo nelle mani dei medici, adesso dico anch’io: “Nelle tue mani, anzi nelle tue braccia mi affido”. Posso chiederti dove trovi questa forza? “Nell’amore, nell’amore che ho per la mia famiglia e nell’amore che i miei cari hanno verso di me. È cresciuto in questo tempo il nostro legame come non mai. Ma so che la sorgente di tutto l’amore è Dio, basta che guardi quel Crocefisso sulla parete di fronte. Lui è l’amore più grande. Sì c’è un’intesa tra noi. Lo percepisco più vicino e posso con lui offrire qualcosa per quelli che hanno più bisogno di me”. L’amico Francesco mi fa venire in mente quanto anche il papa metta a base della sua lettera sul “dolore salvifico”, citando Paolo: “Completo nella mia carne quello che manca ai patimenti di Cristo a favore del suo corpo che è la chiesa” (Col 1,24). E certamente la chiesa incomincia dalla famiglia, che è una “piccola chiesa”. Credevo di poter chiedere a Francesco se avesse bisogno di qualcosa, ma ancora una volta è stato lui a donarmi un momento importante della sua vita e senza dubbio il più importante. Sono riuscito solo a dirgli: “Sono convinto anch’io di quello che mi dici”. Ricordo quando un giorno mia madre mi chiese se avessi bisogno di qualcosa. Le risposi: “Sì, di una preghiera”. E lei, di rimando: “Per te, prego notte e giorno”. A maggior ragione sono certo che questo lo fa la Madonna. Come del resto si è interessata quella volta per quegli sposi alle nozze di Cana: “Non hanno più vino”. Gesù non poteva non ascoltare la preghiera di sua madre. Mario Bodega

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