La mafia e la santità secondo Roberto Mazzarella

Ieri a Palermo si è spento un giornalista appassionato di temi scomodi: Dio e Cosa Nostra. Per Città Nuova non era solo un collega, l’autore di un libro importante come “L’uomo d’onore non paga il pizzo”, ma resta un amico, un graffiante maestro che ci spinge a osare sempre
Roberto Mazzarella

Roberto Mazzarellasi è spento ieri a Palermo, sua città d’adozione da sempre, perché pur nato a Ragusa, era rimasto affascinato dal capoluogo siciliano a cui aveva dedicato persino una pubblicazione, Arcipelago Palermo, provando a capirne le molteplici facce.

Èdifficile scrivere di lui e su di lui. Scorrendo le mail, ne abbiamo trovate tante che ci sfidavano a leggere il presente e a scovarne i segni della presenza di Dio. Abbiamo ritrovato articoli, post, commenti e proposte: tutte hanno il timbro della sua forza d’animo e di una speranza che si fa certezza dell’intervento di Dio proprio nei momenti più crudi. Lasciamo ai lettori la possibilità di conoscerlo attraverso un ritratto autobiografico che apre il libro L’uomo d’onore non paga il pizzo.

L’amico Roberto poi, resta nel cuore di ciascuno della redazione e la stessa amicizia ci continua a legare alla sua bellissima famiglia, che con lui e con noi ha condiviso tanti dei progetti di fraternità messi in atto dal Movimento dei focolari.

Ieri un post sulla pagina Facebook nata dal libro di Città Nuova così recitava: «Oggiil nostro Uomo d’Onore sposta la sua “battaglia” su un altro piano… regalandoci il suo sogno e le sue speranze affinché ognuno di noi divenga nuovo uomo d’onore».

 

 

90 miliardi di euro l’anno: il sei per cento del prodotto interno lordo nazionale, l’equivalente di cinque finanziarie. Questo il fatturato annuale dell’“azienda mafia”, alimentato da estorsioni, usura, furti, rapine, traffico di armi e di eroina, controllo “scientifico” degli appalti.

I commercianti e gli imprenditori in Italia subiscono 1300 reati al giorno, cinquanta all’ora, quasi uno ogni minuto! Quel che più preoccupa è che la mafia ha le mani dappertutto, insieme alla capacità di espandersi oltre i confini regionali e nazionali, soprattutto per quel che riguarda il riciclaggio di denaro.

Ho iniziato a scrivere di mafia all’inizio degli anni Ottanta, quando di mafia si parlava poco e, anzi, si preferiva talvolta non parlare per niente. Iniziai perché un mio amico (vecchio giornalista trentino che aveva fatto la resistenza) vedeva in me la “stoffa” e la voglia per il “mestiere”, ma non la capacità di “incarnarmi”, di prendere con decisione sulle mie spalle la piaga della mia terra.

Infatti, un pomeriggio, dopo aver letto il mio ennesimo tentativo di scrivere, con pazienza ma con fermezza mi disse che non potevo mettermi davanti alla macchina da scrivere senza aver prima deciso di “penetrare” con decisione, “costi quello che costi”, la piaga della mia terra: la mafia. E non per far discorsi aulici o “scientifici”, ma per provare a essere concretamente “incarnato” nella mia realtà, pronto a raccogliere ed esprimere il dolore che da lì proveniva. Una capacità che, coniugata con l’esperienza di fede che andavo rafforzando in quegli anni, significava talvolta abbracciare, serrare a me con forza, il volto martoriato della mia terra.

E ricordo che nelle nostre telefonate mi incoraggiava non ad avere il coraggio di denunciare il malaffare – non era sufficiente secondo lui! –, ma ad avere piuttosto il coraggio di “piegarmi” sulla mia città, sulla mia terra, per sentirne, fin nel più profondo dell’anima, ogni sussulto, ogni dolore, ogni anelito di speranza. E così scrissi e scrissi di mafia, di malaffare, rischiando spesso l’accusa di essere “monotematico”, se non “fissato”, con mafia e riciclaggio. Ma come si può essere monotematici o “fissati” quando tutto ciò nasce dall’amore per la propria terra? Quando l’amore è così forte che vederla violentata e mortificata dalla malapianta mafiosa provoca indignazione e rabbia?

Così iniziai ad assaporare il gusto amaro del dolore senza significato dei mille “perché” senza risposta, dell’impotenza che ti rende tanto rabbioso che potresti diventare violento. E poi, cominci a dare un volto alla mafia. Un nome e un cognome. Li vedi passeggiare, parlare, ridere. Li senti vicini, anche troppo vicini. Sei costretto a dividere con loro la piazza, la strada, la città. Rischiano di farti dividere il cuore dall’anima, di non potere o sapere coniugare più il cuore e il cervello. Ciascuno, il cuore e il cervello, prende la sua strada, segue i suoi percorsi, tutti giustificati e tutti sbagliati.

Non riuscivo a sopportare questa cappa, questo “eterno presente” cui la mafia ci costringeva ogni giorno. Mi stavo dimenticando, pian piano, la raccomandazione di Gino, quel mio amico giornalista: non avrei dovuto accontentarmi del coraggio di denunciare il malaffare, avrei dovuto sapermi “piegare” sulla mia città, sulla mia terra.

Ma il dolore era sordo, spesso senza ascolto. Poi, mi scontravo con un’altra piaga: una piaga nella piaga. In quegli anni l’antimafia era poco organizzata e stava per nascere. Quel che mi faceva male è che usava gli stessi termini, peggio, le stesse categorie culturali della mafia. Stessa violenza, seppur verbale, stessa voglia di annientare il “nemico”. Evidentemente non restai immune da questa malattia. Sentivo salire in me una tale voglia di cambiamento, di liberazione, che avrei fatto tutto pur di raggiungere l’obiettivo.

Il ricordo del mio amico Gino e delle sue esortazioni mi aiutò – ma con quale dolore! – a prendere le distanze da questi atteggiamenti e a voler rimanere sempre affascinato ma sereno. Piuttosto che inveire, ho preferito studiare e leggere. (…)

In questi anni ho scritto di mafia e ho parlato di mafia riuscendo, grazie ai suggerimenti dell’amico trentino, a non far divenire la mafia l’unico pensiero della mia vita, una sorta di ripicca. No, i miei pensieri sono rimasti semplici e senza odio o rancore, e non è poco. Ho subito minacce e tradimenti, isolamenti e depressioni. Ma il mio cuore e il mio cervello ancora oggi si entusiasmano per una storia come quella dei ragazzi di Addiopizzo o dell’imprenditore che si ribella alla mafia.

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