La leggenda di Giuliano

Ha passato parecchio tempo lì, l’artista Monet. Con la sua tavolozza, sulla piazza antistante la cattedrale di Rouen, dipingendo l’una dopo l’altra ben trenta tele. Cercando di carpire in ognuna di esse i diversi effetti della luce che, secondo l’ora del giorno, fa cambiare di colore la facciata della cattedrale: a volte smaterializzandola nel sole del mezzogiorno, a volte cristallizzandola in forme di pietra eterna. Pochi anni prima, passeggiando nell’ambulacro di quella stessa cattedrale gotica, il grande scrittore Flaubert fu ispirato dalla luce che illuminava una vetrata a scrivere uno dei suoi racconti più belli. Avvenne tutto lì, in quella fatata città della Normandia, già tristemente celebre per aver ospitato il rogo di Giovanna, fanciulla contadina e guerriera, innamorata di Dio, destinata col tempo a diventare patrona della Francia. La vetrata che folgorò Flaubert raffigura, probabilmente rifacendosi alla Leggenda Aurea, scene della vita di san Giuliano Ospitaliere. Un “santo” che forse come tale non è mai esistito realmente – o che raccoglie un insieme di tradizioni e sovrapposizioni di diversi personaggi – ma la cui storia ha avuto così tanta presa popolare a partire dal medioevo, che è rimasta immortalata in tantissimi racconti e leggende. A lui è dedicata una stupenda vetrata nella cattedrale di Chartres; a lui fu dedicata la chiesa benedettina di Saint Julien-le Pauvre, nel quartiere latino di Parigi, luogo dove pare abbiano studiato Dante, Alberto Magno, Tommaso d’Aquino, Petrarca e più tardi Rabelais; a lui è dedicata la città di Macerata, che lo ricorda in tanti affreschi nelle sue chiese, sulle porte d’accesso intorno alle mura, nell’antico sigillo dell’università, nei palazzi signorili, negli stendardi. Ma Flaubert, con la sua formidabile vena di scrittore, sembra aver superato tutti, immortalando la vicenda di Giuliano in un racconto così forte e appassionante, di una così alta maturità stilistica ed espressiva, da apparire esso stesso un autentico miracolo letterario. Nel quale le parole diventano necessarie le une alle altre e si richiamano a vicenda come gli accordi in una sinfonia. Strano a dirsi, ma la vicenda di Giuliano Ospitaliere pare ricordare, almeno parzialmente, quella di Edipo re, che ci tramandano Sofocle e diversi miti greci. Secondo i quali l’oracolo di Delfi predisse a Edipo che avrebbe ucciso il padre e sposato la madre. Allora il giovane, per scongiurare quell’infelice destino, scappò dalla sua città. Ma, strada facendo, uccise un uomo, che si rivelò poi essere suo padre; e nella città di Tebe in cui si rifugiò sposò la regina, senza sapere che era sua madre. Venuto a conoscenza, attraverso tragici avvenimenti, che la profezia dell’oracolo s’era compiuta egli, dalla disperazione, s’accecò. E, cieco e tormentato, errò vagabondando, accompagnato dalla figlia Antigone. Finché, fra lampi e tuoni, discese negli inferi. La leggenda dell’Ospitaliere, invece, è più o meno così. Giovane di nobile stirpe, Giuliano, cacciatore audace e anche violento, durante una battuta di caccia trafisse un cervo con una freccia. L’animale ferito a morte si rivolse miracolosamente al giovane, proferendo un’oscura minaccia: “M’insegui per uccidermi, proprio tu che sarai l’uccisore di tuo padre e di tua madre”. Inorridito, nel timore che la profezia si compisse, Giuliano fuggì. In un paese lontano si rifece una vita conquistando nuovamente fama, onori e ricchezza con una condotta giusta e valorosa. Conobbe una nobile fanciulla, la sposò e visse con lei una vita apparentemente serena. La profezia del cervo sembrava del tutto scongiurata. Ma la vita tranquilla male si confaceva all’animo irrequieto di Giuliano, che veniva assillato da oscure tensioni e ingiustificabili paure, come il timore di essere tradito dalla fedele sposa. Intanto i suoi genitori, all’oscuro di tutto, erano distrutti dal dolore. Non rassegnandosi però alla scomparsa del figlio, dopo lunghe e penose ricerche, riuscirono a rintracciarlo. Si misero allora in cammino e dal natio castello, con un estenuante viaggio, giunsero alla casa del figlio. La giovane nuora li accolse con gioia e per dimostrare la propria ospitalità li fece riposare nella camera matrimoniale. Nel cuore della notte Giuliano, roso dalla gelosia, piombò in casa ed entrato nella camera nuziale vide giacere le due persone. Convinto, nell’oscurità, del tradimento della moglie fu preso da una furia superba e, sguainando la spada, uccise i due dormienti. Alle grida, giunse la sposa. E la tragedia si svelò in tutta la sua terribile assurdità. Colto da un grande orrore e smarrimento per il gesto sconsiderato che aveva compiuto, Giuliano lasciò il castello e andò a vivere in una capanna in riva ad un fiume. Lì condusse una vita di espiazione, rifugiandosi nella misericordia divina, aiutando i pellegrini e i viandanti, traghettandoli sull’altra riva del fiume e curando le loro malattie. Da qui il nome Ospitaliere. Finché, in una notte d’inverno, Giuliano accolse nel suo ospizio un povero lebbroso. Che si rivelò essere Gesù, venuto per ringraziarlo e dirgli che la sua espiazione era terminata, e quella stessa notte sarebbe stato con lui in Paradiso. Flaubert, spirito laico e pungente castigatore della morale borghese – basti pensare ai suoi romanzi Madame Bovary e L’educazione sentimentale – con questa finale vuole comunicarci un pensiero a lui molto caro: dirci in cosa, per lui, consiste la santità, e come a lui piacerebbe vedere i santi. Gente che sa donarsi completamente all’amore per il prossimo e che, superando anche grandi difficoltà personali, sa dedicarsi totalmente all’amore di tutte le creature. Come quella di Edipo, anche la vita di Giuliano sembrava segnata da un terribile destino, scritto nei cieli. Ma la diversità fra le due leggende è folgorante. La prima, tutta racchiusa dalle tenebre del mito, non offre via di scampo. Edipo, inconsapevolmente colpevole di parricidio e incesto, non ha altra alternativa che sottomettersi alla irrevocabile condanna della cecità e della discesa nel mondo del nulla. La seconda è tutta avvolta dalla claritas del cristianesimo che illumina la libertà umana: dalle fosche tinte della caccia, della violenza, della gelosia, della furia omicida, scaturiscono i bagliori della redenzione. Il cieco cerchio chiuso del mito viene spezzato. Si spalanca una via d’uscita, anche dove tutto sembrava scolpito dalla ferrea sentenza del destino. È stata questa la luce che, riflessa nella vetrata della cattedrale di Rouen, ha allora folgorato e ispirato Flaubert? GUSTAVE FLAUBERT (Rouen 1821-1880) cominciò a scrivere giovanissimo. Poi, abbandonati gli studi a causa di una grave malattia nervosa, si ritirò nell’isolamento della tenuta di Croisset, dalla quale non si allontanò che in rare occasioni. Lì condusse una vita tranquilla tutta dedita all’arte. Per quanto la sua educazione e la sua condotta di vita fossero profondamente borghesi, egli odiò sempre la morale e la mentalità borghesi, e ne mise in luce la meschinità. Ha lasciato un numero limitato di opere: ognuna di esse è però frutto di un coscienzioso e severo lavoro. Fra esse: L’educazione sentimentale, La tentazione di Sant’Antonio, Madame Bovary, Salâmmbo e, nel 1877, Tre racconti: Un cuore semplice, Erodiade, La leggenda di san Giuliano Ospitaliere.

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