La guerra dentro l’Africa

Non esistono guerre giuste: dietro formule astute si nasconde, sempre più spesso, la volontà di conquistare il potere e di dominare gli altri. I conflitti diventano l'unico strumento della politica, con esiti devastanti in termini di vite umane e con la moltiplicazione della violenza. Una riflessione
guerra in Mali Africa

L’11 gennaio, dopo oltre nove mesi di pace, nel Mali il gruppo di ribelli islamici Ansar al Din ha occupato la città di Konna, 55 chilometri a nord di Mopti, dichiarando di voler controllare il Nord del Paese. Tutto questo ha fatto precipitare la situazione e le Nazioni Unite hanno confermato l’intenzione di inviare un contingente di tremila uomini, a protezione della popolazione civile.

Il presidente della Francia, François Hollande, sotto l’egida del consiglio di sicurezza dell'Onu, ha promesso un intervento militare a sostegno del governo legittimo del Mali e della popolazione civile. Sabato 12 gennaio gli aerei francesi hanno cominciato a bombardare le postazioni dei ribelli nel Nord del Paese.

La commissione europea ha dato la sua solidarietà ad Hollande, che ha ricevuto il sostegno dei grandi stati europei, compreso il nostro. Attualmente la Francia ha gia schierato oltre seicento uomini e prevede di inviarne altri fino a 2.500.

Nessuno vuole sottolineare il rischio di una espansione terroristica tra Sahara e Sahel e quindi da tutti è condiviso un intervento energico e risolutivo. Verrebbe da dire che valeva la pena di essere più vigilanti prima di arrivare a questo punto, che apre una fase nuova e dagli esiti imprevedibili.

Appare con più evidenza oggi l’errore compiuto dalla Francia, dall'Inghilterra, dagli Stati Uniti e dall’Italia con la guerra in Libia, conclusasi con l’uccisione del colonnello Gheddafi, che controllava tutta l’area e teneva rapporti con tutti, finanziando gruppi e paesi.

Il modello Libia sta producendo danni devastanti nella guerra civile in Siria e al tempo stesso la fine di Gheddafi ha prodotto una dislocazione di armi e di uomini verso il Sahara e il Sahel, alimentando il terrorismo ma anche scatenando interessi forti per il controllo, nell’area, del traffico di armi, della droga, dei pozzi petroliferi e dell'uranio. Questo deserto non è solitudine, ma interessi, ricchezze, nuove relazioni geopolitiche. Certo c'è la lotta al terrorismo, ma ci sono anche importanti interessi economici.

Sorprende che la retorica della lotta al terrorismo abbia prodotto qualche drone, qualche assistenza logistica, qualche rinforzino europeo, ma niente di più. Si dice che è la guerra giusta contro il terrore, ma siamo i primi a non credere in questo (a partire dagli americani) perché nessuno, tolta la Francia, ha intenzione di mettere gli uomini e le donne. C'è come una schizofrenia, che è sempre segno di una cattiva politica.

Romano Prodi, che ha avuto un incarico speciale dal segretario delle Nazioni Unite Ban Ki Moon per ritessere la via del dialogo in questa parte dell’Africa, in una intervista a radio Capital ha detto, rispondendo alla domanda se è possibile uscire positivamente da questa situazione: «Spero che non dilaghi in una delle tante tragedie senza controllo che abbiamo avuto negli ultimi tempi. Abbiamo fatto tutti gli sforzi per evitarlo. Quello che non si capisce è perchè sia arrivato questo attacco improvviso a trattative in corso. Ma per avere la pace, in Mali e in tutto il Sahel, serve un piano di sviluppo da parte di tutta la comunità internazionale».

Le osservazioni di Prodi, molto misurate, nascono dalla consapevolezza che la guerra, tutte le guerre finiscono in tragedie da cui poi non si è in grado di uscire più. Questo vale per la Libia, ancora attraversata da violenze senza limiti. Questo vale per la Siria, questo vale per l’Afghanistan, dove dodici anni di guerra (due volte la seconda guerra mondiale) non hanno prodotto nessuna soluzione stabile ed efficace.

Solo la politica (un piano di sviluppo) può seccare i pozzi del terrorismo in Mali, creando il consenso della popolazione con programmi di rafforzamento dello stato, ma anche del suo decentramento, e con progetti scolastici, per la sanità e, più in generale, per lo sviluppo economico. Le armi oggi creano l’illusione della via breve, ma in realtà aprono processi che poi diventano impossibili da controllare.

Nei miei viaggi in Sierra Leone e nella Repubblica democratica del Congo mi è capitato di vedere i contingenti militari delle Nazioni Unite  in azione e devo dire che non davano l’impressione di grande consistenza e forza. Spesso si squagliavano di fronte alla guerriglia, più motivata e meglio pagata… E comunque i danni peggiori erano sopportati dalla popolazione civile. Io penso che anche nel Mali avverrà la stessa cosa.

Non ci dovrebbe essere gara tra la Francia, l’Europa e l’Onu e i ribelli del Mali, siano essi tuareg o islamisti radicali. La differenza di forza sembra illimitata, eppure tutti dicono che non sarà una cosa breve, anche se dall’esito scontato. Ci mancherebbe altro. Certo l’occidente mostra ancora il suo volto militare invece che quello dello sviluppo, dei diritti e della giustizia, e questo è un gravissimo errore, che peserà nel presente e nel futuro.

Gli intellettuali francesi si sono subito schierati per dire che questo è un perfetto caso di guerra giusta. Le forze in campo sono cosi radicalmente sproporzionate che già questo metterebbe in discussione la categoria di guerra giusta. Anche le modalità appaiono singolari: interviene un solo paese, la Francia, che ha gestito per decenni quel territorio come propria colonia.

Forse bisognerebbe ricordare che la dottrina della guerra giusta appartiene ad un passato che non è più proponibile. Dietro una formula astuta si nasconde semplicemente una mentalità di dominio che fa della guerra l’unico strumento della politica, con esiti devastanti in termini di vite umane e con la moltiplicazione della violenza.

Speriamo che per il Mali e per noi questo non accada, ma non è difficile essere pessimisti.

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