La grande sfida della testimonianza

Il blitz delle forze speciali Usa vicino a Islamabad apre nei fatti un nuovo scenario. Sperando che a termine si depongano gli odi reciproci
Esercito Usa

Pochi minuti dopo l’annuncio della morte di Bin Laden, ci è giunta in redazione la lettera di una madre, Stefania De Stefano Apostolo, di Potenza, che diceva così: «Stamattina ho avuto una grande difficoltà, come essere umano ma soprattutto come mamma. Infatti ho due figlie di 12 e 8 anni e proprio con la più piccola ci è capitato di vedere le immagini dell’uccisione di Bin Laden e delle persone che festeggiavano. Dentro di me ho avvertito un grande contrasto: si può mai festeggiare per la morte di qualcuno? E, soprattutto, come spiegare questi festeggiamenti ad una bimba a cui abbiamo finora detto che la vita va sempre rispettata e salvaguardata?».

 

Questa perplessità è stata anche la nostra, così come è stata di tanta altra gente. Si è ben espresso padre Lombardi, responsabile della sala stampa del Vaticano: «Di fronte alla morte un cristiano non si rallegra. Ma riflette sulle gravi responsabilità di ognuno davanti a Dio e agli uomini». Da un fronte più laico, Giovanni Reale ha detto da parte sua che «nel Vangelo rispetto e silenzio prendono il posto della vendetta». Appaiono quindi anacronistici, «retaggio primitivo», come dice Severino, i festeggiamenti e le esultanze di tanti statunitensi all’annuncio dell’uccisione di Osama. È forse comprensibile ma assolutamente non condivisibile che nella Fifth Avenue ieri si stappassero bottiglie di champagne.

 

Detto questo, mi sembra che tre precauzioni debbano essere prese all’indomani dell’operazione delle forze speciali Usa, sul cui comportamento restano dubbi e zone d’ombra.

 

Primo: non bisogna in nessun caso cercare di umiliare, anche involontariamente, il mondo musulmano. È vero, Obama ha detto che «la guerra al terrorismo non è una guerra all’Islam», ma non basta, perché altre frasi come «il mondo è certamente migliore oggi senza Bin Laden» possono facilmente portare ad una contrapposizione morale e politica tra mondi diversi. Tanto più che l’inslamismo più radicale sta cercando di mettere tutto il cristianesimo contro l’Islam, identificando la religione del Cristo con l’Occidente e la sua cultura. Guai a dar fiato a questa voce! I primi a rimetterci sarebbero i cristiani delle piccole comunità nei Paesi islamici, a cominciare dai già provati pakistani cristiani.

 

Secondo: è questa un’occasione per ripartire, perché l’Occidente non si ponga più nei confronti dell’Islam come una “entità superiore”. Bisogna rivedere le strategie in Afghanistan, Iraq, Libia, nel Nord Africa nel suo complesso, aprendo un’ampia stagione di dialogo e apertura, approfittando del vento che sta cambiando nelle giovani generazioni arabe e musulmane in genere. Deponiamo le armi, diamo fiato alla politica e alla cultura. Il blitz di Abbottabad è ancora un’espressione di una certa concezione imperialistica della politica statunitense, capace di intervenire ovunque, come se gli Usa fossero i gendarmi del mondo: questo tempo è finito, come lo stesso Obama aveva lasciato intendere proprio in Egitto all’inizio del suo mandato.

 

Terzo: fa riflettere la coincidenza della concentrazione mediatica su due personaggi peraltro agli antipodi, come Wojtyla e Bin Laden. Nel bene e nel male, e solo questo li accomuna per la mia semplice riflessione, sono stati dei testimoni “coerenti” di quello che propugnavano. Testimoni, prima ancora che maestri. Si può costatare ovunque nel mondo quanto il loro esempio abbia saputo influenzare le masse. Servono nuovi testimoni, allora. Del bene.

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