Ti celavi, fanciulla, nell’acqua cristallina; e a fior d’acqua ondeggiava il chiomato capelvenere. Avevi forse consentito alla buia notte di sciogliere i tuoi capelli?. È la traduzione dal latino di: Vitrea virgo sub aqua latebas,/ at comans summis adiantus undis/nabat. An nocti dederas opacae/spargere crinis?
Orazio? Virgilio? Catullo? Nessuno dei tre. Autore del poemetto in strofe saffica minore, da cui tali versi sono tratti, è Giovanni Pascoli. Proprio così: il poeta romagnolo di cui chi è memore delle antologie scolastiche conosce almeno qualche poesia coltivò anche, lungo l’intero arco della sua carriera letteraria, una importante e raffinatissima produzione latina che testimonia la sua perfetta conoscenza della lingua di Cicerone e dell’antichità classica, da lui rivissuta con sensibilità sua propria.
Grazie a queste prerogative, Pascoli partecipò per 30 anni alla gara annuale di poesia latina istituita ad Amsterdam nel 1844; e con successo, se dei 30 poemetti inviati al concorso 13 furono premiati con la medaglia d’oro e 15 ottennero la magna laus.
Fra gli altri, c’interessa il carme di cui sopra, che prende nome da una fanciulla forse neanche ventenne, nata in una famiglia di liberti: Crepereia Tryphaena. Lo spunto venne dato al poeta dal ritrovamento a Roma del sarcofago con inciso questo nome accanto a quello di un personaggio maschile della stessa famiglia, Lucio Crepereio Euodo, durante gli scavi per le fondazioni del Palazzo di Giustizia (il “Palazzaccio”) nel quartiere Prati: una scoperta che all’epoca, era il maggio 1889, fece enorme scalpore per le singolari circostanze che l’accompagnarono, attirando per giorni folle di curiosi.
Aperti, infatti, entrambi i sarcofagi, a causa della vicinanza del Tevere furono trovati colmi di un’acqua così limpida da lasciar vedere perfettamente gli scheletri. Pathos particolare suscitò il teschio di Crepereia sul quale era cresciuta una pianta acquatica filamentosa a mo’ di chioma, il viso leggermente rivolto verso la spalla sinistra, là dove era adagiata una bambola con braccia e gambe articolate, seni e larghi fianchi: segno che per le pupae dell’antichità si preferivano modelli riproducenti la figura femminile sviluppata.
Il ricco corredo funebre comprendeva una coroncina di foglie di mortella trattenute da un fermaglio d’argento, orecchini d’oro con perle, una collana d’oro con pendaglietti di berillo, tre anelli di cui uno con cammeo portava inciso il nome Filetus (il promesso sposo?), una spilla d’oro con ametista incisa e un bastoncino tortile in ambra, simbolo forse di un’attività femminile come la filatura.
Se l’elemento più pregevole è la spilla con ametista, forse un antico gioiello di famiglia, il più interessante è senz’altro la bambola per la raffinatezza del modellato e la perfezione delle articolazioni mobili. In avorio scurito dal tempo, questa Barbie dell’antichità misura 23 centimetri e nel pollice esibisce un anellino a chiave che serviva ad aprire un minuscolo scrigno portagioielli di cui si recuperarono i resti insieme ad una serie di oggetti in miniatura come due specchietti d’argento e pettinini d’osso.
La sua complessa acconciatura è servita fra l’altro a fissare l’epoca della sepoltura intorno alla metà del II secolo d. C.: infatti si ispira alla moda di quegli anni, unendo elementi caratteristici di Faustina Maggiore, moglie di Antonino Pio, con quelli della figlia Faustina Minore.
Era uso, nel mondo greco e romano, che le fanciulle alla vigilia delle nozze consacrassero agli dèi gli oggetti-simbolo della loro trascorsa infanzia per impetrarne la protezione. Crepereia non ne ebbe il tempo e per questo venne sepolta con accanto la bambola che le era stata cara.
Oggi il sarcofago con i resti mortali della fanciulla e l’intero suo corredo funebre illustrano la dimensione più umana degli antichi romani, quella riguardante la vita quotidiana e la morte, ai visitatori di quello straordinario contenitore che è la Centrale Montemartini sulla via Ostiense a Roma.
Ma torniamo a Pascoli. Nel commosso carme soffuso di autentica pietas dedicato a Crepereia (ne riporto la parte finale), il poeta immagina di assistere allo scoperchiamento del sarcofago, rievoca la cerimonia funebre e rivive in sé stesso i sentimenti e il dolore del fidanzato Fileto:
Ecco, sei qui. Eri così pallida anche sul tuo letto d’avorio mentre io, ahimè, piangevo. Eri così, e i tuoi splendidi capelli erano sparsi sul collo piegato.
Ora, mentre piango, da lontano mi arriva alle orecchie un triste suono di flauto che non ricordavo più: queste cantilene e il triste lamento della prefica mi procurano una terribile angoscia.
Il corteo funebre procede lungo la via assolata, l’etrusco Tevere scorre con un triste mormorio attraverso le siepi dove fioriscono i bianchi corimbi del biancospino.
Vespero, che ha il colore del fuoco, non ha fatto in tempo a strapparti dalle braccia di tua madre, mentre eri nel fiore della giovinezza, e i bambini non ti hanno cantato l’imeneo sollevando le fiaccole.
Io, secondo il rito, ho versato il latte dalle sacre coppe, ho chiuso la tua anima nel muto sepolcro e, in preda alla disperazione, ho gridato l’ultimo saluto: «Addio, Trifena, addio!».
Vespero sfiora già con la sua luce dorata le colonne di marmo della mole Adriana, un branco di corvi in fuga passa sul Pincio;
ed ecco che a poco a poco mi sento rapire, mi sembra di svanire nel nulla e non ricordo più quel cuore ormai silenzioso; inutilmente la voce di tua madre cerca di farmi tornare indietro chiamandomi per nome: «Fileto!.
Pascoli pubblicò il poemetto nel 1893 con dedica al ministro della Pubblica Istruzione Ferdinando Marini, suo amico, in occasione delle nozze della figlia. Immagino che non si fosse reso conto della inopportunità di un tema luttuoso in un giorno di massima festa. O forse volle appositamente contrapporre le interrotte nozze di Crepereia con quelle invece fauste della sua consimile romana? Fantasie di poeta.
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