La condivisione come farmaco

La presenza di persone care ha effetti “terapeutici” importanti.

Avere persone care al proprio fianco, quando si è malati, è il primo desiderio di chi è ricoverato (42 per cento). Poter condividere paure e tensioni supera addirittura il bisogno di sentire meno dolore (38 per cento), quello di avere informazioni sulle terapie (34 per cento), non essere un peso per i familiari (34 per cento), avere maggiore autosufficienza (32 per cento) ed essere rassicurati e tranquillizzati (31 per cento). Questi alcuni dati del quarto studio sul “vissuto di sollievo” negli ospedali italiani, voluto dalla Fondazione Gigi Ghirotti. La ricerca è stata condotta su 23.353 pazienti ricoverati negli ospedali di 11 regioni della Penisola.

Le esigenze sono diverse in base all’età del malato. I giovani desiderano avere accanto i propri famigliari, gli anziani non vogliono gravare sulle persone care. La notte e il risveglio rappresentano i momenti più difficili, ma anche la necessità di espletare i propri bisogni è motivo di disagio per chi è in ospedale.

 

Certamente il dolore non è più un tabù. Lo testimoniano le recenti azioni legislative al riguardo – la detabellazione dei farmaci oppiacei e la legge 38 sulla terapia del dolore – e la rinnovata attenzione sulla sofferenza clinica.

Medicina e istituzioni stanno facendo la loro parte: ora bisogna coinvolgere i cittadini. Tanto loro, quanto la classe medica, debbono sapere che il problema non è soltanto un’adeguata terapia farmacologica, come recenti indagini evidenziano. La risonanza magnetica funzionale, infatti, ha dimostrato che la terapia cognitiva determina la liberazione da parte di alcune strutture cerebrali di neuro ormoni, o oppioidi endogeni, che svolgono azione analgesica analoga a quella degli oppiacei, sia pure in misura ridotta. I parenti del malato e il personale sanitario debbono quindi tener presente quale sia il ruolo di un pensiero, di un’emozione, di un’aspettativa e quanto pesa sull’attività biochimica cerebrale.

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