La “città del diario”

Così, a Pieve Santo Stefano, il giornalista Saverio Tutino ha inventato il modo di salvare dalla dimenticanza preziose testimonianze della gente comune. Un archivio unico in Europa
pieve santo stefano

Pieve Santo Stefano, in provincia di Arezzo, è adagiata alle falde dei contrafforti appenninici, nella stretta valle percorsa dal Tevere e dal torrente Ancione. Dopo le distruzioni a tappeto dell’ultima guerra conserva purtroppo poco del primitivo borgo rinascimentale. S’è salvato per fortuna il Palazzo comunale, impreziosito da alcune terrecotte attribuite ai Della Robbia, e sede dell’Archivio diaristico nazionale, fiore all’occhiello della gente di qui. Grazie ad esso, s’è diffusa un’immagine nuova di questa fin troppo quieta cittadina, un’immagine che l’ha resa nota anche a livello internazionale come la “città del diario” per antonomasia.

 

L’Archivio è una “creatura” del giornalista e scrittore Saverio Tutino, quella a cui egli dedica dal 1984 le cure più amorose e che – per la verità – lo sta anche ripagando con le più belle soddisfazioni che abbia raccolto in una lunga carriera. Con la passione che Tutino ha sempre nutrito per l’uomo, in particolare l’uomo comune, quello senza voce in capitolo, che nessuno difende ma tutti sfruttano e schiacciano, da giornalista s’è interessato ai vari movimenti di liberazione sorti qua e là nel terzo mondo e ispirati, magari alla lontana, alla rivoluzione di Marx. Allo sbaraglio un po’ dovunque, dalla Cina all’Algeria, all’America Latina soprattutto, «ho conosciuto – mi raccontava in un’intervista del 1992 – tanta gente, tanti popoli, per poi accorgermi che ogni rivoluzione, una volta raggiunto il potere, subisce una involuzione che la porta a ripetere gli stessi errori che l’hanno preceduta; e chi ne va di mezzo sono sempre i più deboli, quel popolo al quale si voleva rendere giustizia. «Con queste amare costatazioni, sono arrivato all’età della pensione abbastanza malridotto dal punto di vista della salute e umanamente insoddisfatto: non ero diventato un professionista di fama, anche se qualche nome me l’ero fatto, e neanche un politico, perché la politica mi aveva deluso. In fondo cercavo ancora me stesso, una mia realizzazione».

 

Finché – è il settembre dell’84 –, Tutino capita a Pieve Santo Stefano, in occasione di un premio di pittura estemporanea. Qualcuno lo interpella, si parla di futuri progetti, si vuole creare a Pieve qualcosa che costituisca una più valida provocazione e contribuisca a elevare il livello culturale del paese. Tutino un’idea ce l’ha e la espone. «I diari, gli epistolari mi hanno sempre affascinato. Nella mia cerchia familiare c’era quasi la mania di queste cose; io stesso, ogni volta incontravo qualche persona dalla vita interessante, mi informavo se aveva mai scritto diari. «In fondo tutti hanno in casa qualche scritto nascosto: lettere d’amore di un antenato, strette da un nastrino che si è corroso insieme con la carta; lunghi messaggi scritti con nostalgia da parenti emigrati o tolti alla famiglia dalla guerra; diari di viaggio o diari che raccontano pene e speranze dell’adolescenza; memorie di una vita scritte all’età della pensione, oppure stinte autobiografie di donne che hanno ritrovato in una tarda scrittura l’affermazione della propria identità, spesa invano in un’esistenza casalinga; ricordi ancora vivi di anni recenti, bruciati dal piombo o immolati sui sentieri dell’impegno  ideologico; o anche pagine di un presente enigmatico.

 

«Ogni raccolta di questi scritti è cosa che appartiene non solo all’autore o ai suoi discendenti: è un bene della
comunità e come tale deve essere sottratto al destino comune dell’oblio o della distruzione, negli inevitabili traslochi famigliari. Per questo – continuava Tutino – la mia proposta è stata di creare una sorta di “banca della memoria”, dove custodire e valorizzare gli epistolari e gli scritti autobiografici della gente comune, altrimenti destinati a scomparire. E ciò in una sede pubblica a disposizione di tutti coloro che vi avrebbero cercato una testimonianza anche minima di vita, il segno che lascia la polvere degli umili».

 

L’iniziativa, piuttosto originale, in quanto non ha confronti in Italia e in Europa, suscita immediato interesse ed è appoggiata dal comune. Nasce l’Archivio diaristico nazionale, che entro pochi mesi si arricchisce di ben 120 diari. Oggi che – grazie ai mass media e all’istituzione, nell’85, di un premio – esso è conosciuto anche oltre i nostri confini, sono circa 6000 i racconti di vita vissuta custoditi a Pieve. I migliori, selezionati da un’apposita commissione, entrano a far parte di una rosa più ristretta di 10 per concorrere al premio, che ai primi di settembre, durante i festeggiamenti in onore della Madonna dei lumi, viene attribuito da una giuria nazionale. Per l’occasione, vengono messe in scena “Memorie in piazza”, tratte dalle 10 storie finaliste. Già perché a Pieve, sull’onda dell’Archivio, è nato anche un laboratorio teatrale composto di giovani attori locali.

 

Ma a prescindere dal premio, che è l’iniziativa più vistosa e nota al pubblico, resta il valore dell’Archivio, che «è un archivio vivente – Tutino teneva a ribadire – dove la memoria di una persona continua a vivere e s’intreccia con quella di altre. Qui viene lo studente che vuol fare una tesi sui diari degli adolescenti, viene lo scrittore (penso a Miriam Mafai, l’autrice di Pane nero, ora divenuto un bestseller), lo sceneggiatore di film, l’autore di programmi televisivi, per attingere materiale e trovare ispirazione. «Quindi, per tornare all’inizio, io che avevo girato il mondo cercando di fare qualcosa per la dignità della persona attraverso rivoluzioni che chiamavamo comuniste e comunque, anche se hanno fallito, sono state motivo di speranza, sono arrivato oggi a vedere una realizzazione completamente diversa e per così dire minore di questo mio sogno. È sempre qualcosa che difende la dignità dell’uomo, il quale aspira ad una identità anche senza essere una star o un personaggio “in”. Io lo faccio attraverso questi scritti di gente qualunque».

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