Kennedy emblema nella lotta per i diritti civili

A 50 anni dalla morte del presidente degli Stati Uniti, tracciamo un suo profilo con il professor Vincenzo Buonomo, ordinario di Diritto internazionale e di organizzazione internazionale alla Lateranense: «Ci ha consegnato un’idea diversa della democrazia e delle istituzioni»
John Kennedy a Dallas

L’anniversario della morte diJohn Fitzgerald Kennedy, di cui oggi ricorrono i 50 anni, è anche l’anniversario di un progetto politico interrotto per un brutale assassinio. Il giovane presidente veniva ucciso a Dallas durante una visita ufficiale il 22 novembre 1963, ferito alla testa da un ex marine. Abbiamo chiesto al professor Vincenzo Buonomo, ordinario di Diritto internazionale all’università Lateranense un commento su questa figura che ha lasciato un marchio nella storia del dopoguerra, e non solo degli Stati Uniti.

Quale messaggio Kennedy ha consegnato alla storia occidentale?
«Possiamo dare diverse letture della sua storia personale e politica. Anzitutto una lettura che riguarda gli Stati Uniti. Kennedy è espressione di un mondo cattolico che negli Usa non era maggioritario e questo è un aspetto che caratterizza particolarmente la sua figura. Poi ci sono le origini irlandesi e quindi la sua storia di immigrato. Poi c’è la giovane età che lo ha catapultato immediatamente nella politica nazionale, dall’esperienza di governatore dello Stato del Massachusetts fino al cuore della politica del Paese. E poi ci ha consegnato quell’idea della nuova frontiera e del modo diverso di intendere la democrazia e le istituzioni, oltre ai diversi modi di intendere i rapporti tra i diversi popoli e i diversi Stati.
Non dimentichiamo poi episodi come la crisi di Cuba e il muro di Berlino, eventi che hanno segnato la storia del mondo dopo la Seconda guerra mondiale. Quegli anni della sua presidenza sono stati forti».

Quali le caratteristiche del suo modo di governare?
«A mio parere, in quegli anni, ha mostrato la fermezza di rendere pratica questa nuova frontiera della politica. La famosa frase “Siamo tutti berlinesi” di fronte a un muro che si costruiva dà l’idea che gli ostacoli e le barriere che possiamo mettere tra le persone e tra i popoli si potrebbero superare se ci fosse la volontà di sentirsi parte di un’identità, cioè sentirsi della stessa famiglia umana e quindi non solo identità particolari».

Dietro il suo omicidio è fiorita tanta letteratura e tante tesi che hanno gridato al complotto. Qual è la sua visione a riguardo?
«A distanza di 50 anni bisogna dire che è un evento che fa parte della storia e quindi ritengo inutile tornare su cause o strategie di complotto: è un evento da registrare. Non avrei argomentazioni per propendere per una tesi.
A volte penso che siano argomenti che servano a riempire pagine».

Quale eredità lascia la sua figura?
«Certamente tutta la lotta per i diritti civili, dalla sua idea della nuova frontiera si è sviluppato quel movimento che portò al sogno di Martin Luther King e quindi al riconoscimento di diritti per tutti, indipendentemente dall’appartenenza etnica o razziale. Poi ci sono critiche al suo modo di gestire la cosa pubblica, governata a livello di clan, ma questo può esprimere un certo modo di condurre la politica in un Paese come gli Usa. Poi la visione degli Stati Uniti è stato costretta ad allargarsi sul fronte internazionale: Kennedy iniziò la guerra del Vietnam, ne fu costretto, fu un impegno militare non indifferente che richiedeva un Paese di ampie prospettive. Resta di lui l’idea che le si possono cambiare solo se ci si lavora dal di dentro e cioè immergersi nei problemi per poterli affrontare e risolvere».

Obama può considerarsi in qualche modo un suo erede? Un frutto dal punto di vista delle battaglie per i diritti?
«Sicuramente c’è un metodo nell’affrontare le nuove questioni che si pongono in economia, nella funzione e nella struttura dello Stato, le nuove frontiere che si pongono sulle questioni dell’integrazione, perché la società statunitense è multietnica, multireligiosa e multiculturale e quindi questo è un problema che non si affronta con provvedimenti singoli, ma con strategie di lungo raggio. Credo che questo sia un indicatore di metodologia che Kennedy ha lasciato e che qualcuno cerca di riprendere».

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