Irap o buste paga?

Il Consiglio dei ministri approva lo stanziamento di 10 miliardi per ridurre la differenza tra netto in busta paga e costo del lavoro per l'azienda. Le considerazioni di un imprenditore
Lavoro in fabbrica

La mania di politici e sindacalisti di utilizzare termini come “cuneo fiscale” è davvero deprecabile. Al posto di quel termine sarebbe meglio parlare della “differenza tra netto in busta e costo del lavoro per l’azienda”, una differenza che è davvero notevole, attualmente il costo per l’azienda è più del doppio del netto in busta.

Una differenza che è dovuta a varie voci; al contributo per il fondo pensioni Inps, a quello per l’Inail (sicurezza sul lavoro), alla quota per il Tfr (trattamento di fine rapporto), all’Irpef (imposta sul reddito della persona fisica) e all’Irap, l’imposta regionale sulle attività produttive, soprannominata “imposta rapina” perché  calcolata non sull’utile dell’impresa, ma su molte delle sue spese, compresa quella degli stipendi dei lavoratori.

Avendo risorse per ridurre di 10 miliardi all’anno questa differenza, si può appesantire di quasi il 10 per cento il netto in busta riducendo le percentuali dell’Irpef per gli stipendi meno ricchi, oppure agire sul costo del lavoro per l’azienda, riducendo l’Irap.

Escludere il costo del lavoro dall’imponibile su cui si calcola l’Irap sarebbe molto allettante, più che per l'allevio di costo per l’azienda, perché si finirebbe di agevolare gli imprenditori che trasferiscono le loro produzioni all’estero: producendo in Italia oggi si paga una tassa sul lavoro, mentre commissionando il lavoro ad una filiale all’estero, l’intero costo del lavoro ed anche la parte di utile ad esso collegato si può detrarre dai costi; una vera assurdità fiscale che ci infliggiamo da ormai sedici anni, e che prima o poi andrebbe eliminata.

Indirizzare tutti i dieci miliardi nelle buste paga sembrerebbe avere però risultati più immediati, non solo nella fiducia dei cittadini e quindi anche sulla loro partecipazione alle prossime elezioni europee, ma anche sulla domanda interna: quei soldi in più non andrebbero nelle tasche di chi li metterebbe da parte, ma di chi ha bisogno di spendere: quindi essi si trasformerebbero subito in fatturato per le aziende: se anche il 30 per cento dei consumi così indotti fossero rivolti a prodotti esteri, comunque su tutti i consumi si pagherebbe l’IVA e allo Stato tornerebbero due miliardi.

Per le aziende e il riavvio dell’intero sistema economico, sarebbe davvero importante riuscire a pagare in tempi brevi i 60 miliardi di crediti delle aziende; non servirebbe emettere altri Bot, basterebbe dare la garanzia della Cassa depositi e prestiti (Cdp) alle banche che scontassero a costo ragionevole le fatture dei crediti, certificate dalle  istituzioni pubbliche che hanno ricevuto i servizi; preoccupandosi inoltre perché tali crediti non si riproducano, di rendere personalmente responsabili i funzionari pubblici in caso di fatture tenute nei cassetti per non farne risultare il costo nei bilanci dell’anno. 

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