Io no speak English

Secondo una ricerca di EF, l’Italia è al 32° posto nel mondo per conoscenza dell’inglese, con scarsi miglioramenti rispetto all’ultima rilevazione. Le cause? Un governo instabile e una popolazione che invecchia
Il Big ben

Che gli italiani non se la cavassero al meglio con l’inglese, non è una novità: dai ristoranti di Roma che pubblicizzano sempre e costantemente il “no cover charge” – traducendo erroneamente con “cover” invece che con “service” la parola “coperto”-, alle Ferrovie dello Stato che indicano il deposito bagagli come “Left luggage” – inducendo un’amica australiana a chiedermi che cosa si intendesse per “bagaglio di sinistra” -, gli esempi di come nel Bel Paese ci si arrangi sono innumerevoli. Ma adesso arriva l’ennesima ricerca a confermarlo.

Secondo Education First, società svizzera tra le più conosciute a livello mondiale nel campo dell’insegnamento dell’inglese, l’Italia si collocherebbe infatti al 32° posto nel mondo, con un indice di conoscenza dell’inglese – elaborato attraverso un test, a cui hanno partecipato 750.000 persone a livello mondiale – che con 50,97 punti è classificato come “basso”. Giusto per dare un’idea, la prima classificata, la Svezia, ha un indice di 68,69; e meglio di noi, oltre che un po’ tutti gli europei eccetto i francesi, hanno fatto il Vietnam, l’Argentina e l’Uruguay.

«Negli ultimi sei anni – si afferma nella ricerca – la conoscenza dell'inglese in Italia è leggermente migliorata, ma non abbastanza da permettere al paese di lasciare il gruppo con un basso livello di competenza né di progredire allo stesso ritmo di altri Paesi europei: le competenze linguistiche degli italiani restano tra le più scarse d’Europa». Oltretutto, pare ce ne interessi pure poco: «Sebbene molti riconoscano che questo basso livello di competenza è un problema – prosegue infatti EF – nessuna delle riforme dell'ultimo decennio è ancora riuscita a risolverlo: un governo instabile, una popolazione che invecchia e una difficile situazione economica rendono più complicato un cambiamento». Insomma, a sentir loro, sarebbe più una questione sociologica e politica che una somaraggine diffusa. A livello di istruzione, la pecca sta semmai nel sistema universitario, «largamente criticato per essere “scollegato” dal mondo del lavoro. I sintomi di questa mancata connessione si evidenziano, tra l’altro, in una scarsa competenza nell’inglese professionale».

A distinguerci da buona parte del resto del mondo pare poi essere lo scarso tasso di miglioramento: se la Turchia è cresciuta di quasi 12 punti, il Kazakistan di 11, l’Ungheria di 9 e la Polonia di 7, noi siamo fermi al +1,9. Il che non sarebbe preoccupante se fossimo nella zona alta della classifica, ma che pone qualche problema considerando che il lavoro da fare è ancora tanto. Oltretutto, non sono certo una novità tutti quegli studi che mettono in relazione un buon livello di conoscenza dell’inglese con le buone performance economiche di un Paese sullo scenario globale e soprattutto nel campo della cosiddetta “economia della conoscenza”: non a caso la ricerca ha evidenziato i miglioramenti più significativi nei Paesi emergenti.

Che cosa fare dunque per migliorare la situazione? EF suggerisce innanzitutto di «Rendere la comunicazione in lingua inglese un elemento chiave del sistema scolastico pubblico», che sarebbe «l'unico metodo utile per creare una forza lavoro che sappia esprimersi in inglese in un contesto professionale». A questo scopo, è fondamentale «formare i docenti prima di formare gli studenti»: non a caso, una delle maggiori difficoltà emerse nel nostro Paese con l’introduzione in molte università di corsi in lingua inglese – altra innovazione fondamentale, secondo EF – è stata la scarsa disponibilità di docenti in grado di tenere una lezione in lingua inglese. Un ostacolo non soltanto all’apprendimento da parte degli italiani, ma anche all’arrivo di studenti e ricercatori stranieri nei nostri atenei: «In Italia solo il 3,5 per cento degli studenti universitari è straniero – sottolinea la ricerca – contro ad esempio l’oltre 10 per cento della Germania». Una perdita non soltanto dal punto di vista economico, ma anche culturale.

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