Indonesia e Filippine: migranti, droga e pena di morte

Dopo le esecuzioni capitali, cresce la pressione contro la pena di morte a Jakarta, mentre il caso della domestica Mary Jane Fiesta Veloso mette in evidenza il dramma dei lavoratori migranti filippini difesi, finora, solo dalla Chiesa cattolica
pena di morte indonesia

Mary Jane Fiesta Veloso: un nome che dice poco in Europa. I media non ne parlano se non per inciso ed in maniera lacunosa. Eppure, questa giovane madre filippina si è trovata al centro di uno dei contenziosi internazionali che hanno più coinvolto l’opinione pubblica di Paesi asiatici, Indonesia e Filippine, con risvolti a livello internazionale per la difesa dei diritti civili e per la lotta contro la pena di morte.

Proprio la pena di morte era il destino segnato per questa filippina, ‘domestic worker’, da parte di un sistema giudiziario, quello indonesiano che, al pari di altri come Thailandia e Malayasia, non perdona chi è giudicato colpevole di traffico di stupefacenti. Gli altri condannati, otto per la precisione, sono stati giustiziati, mentre la trentenne filippina ha avuto la sospensione della pena e con questo la concessione del tempo necessario per testimoniare nel processo che verrà istruito contro colei che l’avrebbe reclutata. Mary, infatti, con tutta probabilità assolutamente inconsapevole della cosa, è stata sorpresa con stupefacenti nel proprio bagaglio ed è stata risparmiata solo a qualche ora dalla fucilazione. A Manila, infatti, si era consegnata alle forze di polizia Maria Kristina Sergio che si trova ora in regime di custodia preventiva, e che ha ammesso di essere stata colpevole di aver inserito nel bagaglio della sua connazionale la droga che l’avrebbe portata alla condanna capitale.

Mary Jane Fiesta Veloso è stata per giorni al centro di manifestazioni per ottenere la grazia e per l’abolizione della condanna capitale in un Paese, come l’Indonesia, che, pur capace di difendere una costituzione aperta alla tolleranza e all’integrazione religiosa, si dimostra intransigente sulla questione del diritto di giustiziare trafficanti di stupefacenti.In difesa della giovane madre filippina si erano espressi in molti, ma autorevole si era levata anche la voce della Chiesa, sia nelle Filippine che nella stessa Indonesia. “Deve essere liberata subito. È un ostaggio, vittima di un traffico di esseri umani più grandi di lei. La sua presunta reclutatrice si è consegnata alle autorità, ma noi pensiamo che sopra di lei vi sia una rete molto più estesa di persone senza scrupoli. Jakarta deve liberare la donna, innocente, in modo da poter fare giustizia. Noi preghiamo per questo”, aveva dichiarato mons. Ruperto C. Santos, vescovo di Balanga e presidente della Commissione per la cura dei migranti della Conferenza episcopale filippina. Lo stesso vescovo, dopo aver ricevuto la notizia della sospensione della pena, ha affermato che in Mary Jane Fiesta Veloso è possibile vedere oggi “un’icona del migrante filippino. Abbiamo pregato in continuazione per lei, perché crediamo nel potere di Dio e nella Sua misericordia. Ma il governo filippino deve migliorare la situazione economica e creare posti di lavoro, in modo che storie come questa non si ripetano più. Questa donna cercava un futuro migliore per sé e per la sua famiglia, e ha rischiato di morire. Serve una risposta anche politica”.

D’altro canto, anche la Chiesacattolica indonesiana si era fatta portavoce degli stessi appelli e l’arcivescovo di Jakarta mons. Ignatius Suharyo ha promosso in prima persona una campagna per la moratoria della pena di morte nel Paese, chiedendo che si uniscano gli sforzi di tutti i cittadini per la cancellazione della pena capitale dall’ordinamento giuridico del Paese. In risposta, il governo di  Jakarta ha sempre difeso la propria linea di tolleranza zero contro il traffico di droga, ricordando che le fucilazioni sono parte di questa politica. Il procuratore generale di Jakarta gen. Prasetyo nei giorni scorso prima delle esecuzioni e della sospensione della fucilizaione di Mary, ha sottolineato che “le esecuzioni non sono una cosa piacevole. Non sono certo un divertimento”. “Dobbiamo farlo, per salvare la nazione dai pericoli della droga” ha aggiunto l’esponente dell’amministrazione indonesiana.

A esecuzioni avvenute, è intervenuto anche il segretario generale Onu Ban Ki-moon, il quale ha espresso “profondo rammarico” perché, nonostante le pressioni diplomatiche internazionali e gli appelli dei governi coinvolti,  Jakarta ha dato il via libera al boia, risparmiando (per ora) solo la vita di Mary Jane Fiesta Veloso. In un comunicato ufficiale Ban Ki-moon afferma che “non vi è posto nel 21mo secolo” per la pena capitale e ha rivolto un richiamo urgente all’Indonesia, perché risparmi gli altri prigionieri nel braccio della morte. In effetti, degli otto giustiziati, sette erano stranieri. Fra questi, due cittadini australiani – Andrew Chan e Myuran Sukumaran – e un cittadino brasiliano, Rodrigo Gularte affetto da gravi problemi mentali. La politica di Jakarta ha avuto anche effetti di chiari irrigidimenti diplomatici, soprattutto da parte australiana. Il Paese, fra i più stretti collaboratori dell’Indonesia, sia a livello commerciale che turistico, ha richiamato il proprio ambasciatore per protesta. Il premier Tony Abbot ha definito il trattamento riservato ai due australiani “crudele e inutile”, parlando di “momento buio” nelle relazioni fra i due Stati. “Rispettiamo la sovranità dell’Indonesia – ha aggiunto – ma deploriamo la vicenda, che non può essere considerata un fatto come tanti altri”. Anche il governo brasiliano ha espresso “profondo rammarico” e minaccia azioni in risposta all’esecuzione del secondo cittadino brasiliano in Indonesia in meno di tre mesi.

La questione di queste condanne e l’evidenza di una giovane madre filippina raggirata da traffico internazionale di droga, mette il dito sulla dolorosa situazione in cui spesso si trovano i migranti di questi Paesi, costretti a lasciare la loro patria in cerca di un lavoro che possa assicurare un futuro ai propri figli. Proprio parlando della vita dei migranti filippini, Mons. Santos ha dichiarato che nei prossimi mesi visiterà alcuni Paesi del Golfo Persico, fra cui il Kuwait, dove vivono decine di migliaia di filippini che lavorano a servizio di famiglie milionarie o in impieghi di natura pressoché schiavistica del XXI secolo: “Saremo lì per due settimane, cercheremo di incontrare il maggior numero possibile di lavoratori. L’invito è a rimanere sempre in contatto con i cappellani filippini all’estero e con la diocesi. È triste dirlo, ma spesso la Chiesa è l’unica realtà che si impegna davvero per la giustizia e per il loro benessere. Quindi la speranza è che i filippini all’estero possano il più possibile ‘fare comunità’ con chi è nella loro stessa situazione”. Se potesse parlare con ciascuno di loro, conclude mons. Santos, “direi a tutti la stessa cosa. State attenti a chi promette denaro facile e lavoro sicuro. State attenti a chi vi ritiene soltanto merce. Cercate di far rispettare i vostri diritti senza ricorrere a mezzi poco puliti. Il traffico di esseri umani è una realtà terribile per le Filippine.” La ConferenzaEpiscopaledi Manila da tempo sta facendo pressione al governo Aquino per poter creare una adeguata politica occupazionale in patria e, allo stesso tempo, difendere con efficacia chi è costretto a migrare. Le somme che questi filippini mandano in patria, rappresenta oggi la fonte d’introito più alta nel sistema economico filippino.

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