In Puglia, tra migranti, campi e musica

I partecipanti al campo di lavoro "Io ci sto" hanno toccato con mano la realtà degli africani che lavorano alla raccolta dei pomodori nelle regioni del Sud.
Io ci sto

«Mia sorella ed io arriviamo a Foggia la seconda domenica di agosto. Ci presentano i ragazzi di Emmaus, la comunità di recupero per ex tossicodipendenti e alcolisti dove siamo ospitate. Il campo di lavoro “Io ci sto”, organizzato dal missionario scalabriniano padre Arcangelo Maira, comincia. Lo scopo è incontrare i migranti che ogni anno vengono nelle campagne pugliesi a raccogliere i pomodori che finiscono sulle nostre tavole, ma la mattina è dedicata al lavoro con gli ospiti della comunità: in cucina, in giardino, nella fattoria didattica o nel laboratorio di produzione di marmellate, conserve, formaggi e altro. Partecipano come volontari anche Ihssan dell’Iraq e Abraham dell’Eritrea, due ragazzi che hanno ottenuto lo status di rifugiato politico e che, in attesa dei documenti per lavorare in Italia, sono inseriti in un progetto d’integrazione.

 

Il lavoro mattutino è occasione per incontrare gli ospiti della comunità, che hanno bisogno di raccontare la loro fatica quotidiana e loro paure, tra cui quella di ricadere nella vita di prima una volta finito il programma. Matteo, mentre lavoriamo in cucina, mi racconta che ha lavorato al 118 e ha visto cose disumane nei confronti degli africani. Mi rifiuto di credere, ma più tardi una volontaria di Foggia mi conferma la disumanità e l’atrocità di certe situazioni negli ospedali. Francesco mi riferisce del suo passato da spacciatore, del suo tentativo di smettere, dei suoi guadagni stratosferici (dai 3000 ai 5000 euro al giorno). Luca mi dice che sta leggendo un libro di Thomas Merton, ha trovato una senso nella fede. Ad Andrea mancano pochi giorni per uscire ed è felicissimo. Tra un pomodoro, una cicoria e le patate da pulire mi dice: «Io quando esco vorrei fare volontariato come fate voi, perché per me è stato importante».

 

Dopo pranzo ci si dirige nelle campagne dove i ragazzi africani, finite le 9-10 ore nei campi, vanno a lavarsi per venire alle nostre lezioni di italiano. Per arrivare alle loro “case” bisogna percorrere strade sterrate piene di buche. A San Severo vivono in cascine pericolanti, senza tetto, dormendo su materassi o cartoni appoggiati a terra in un vortice di mosche. A Cicerone vivono nel giardino attorno ad una chiesetta abbandonata, che non occupano pur non avendo un tetto sulla testa. Al Ghetto si sono costruiti capanne di cartone, eternit o plastica. Lì la comunità è numerosa e c’è anche una baracca che funziona da “ristorante”, gestita da un mafioso foggiano che vende alcolici e droga.

 

Al lavoro prendono dai 3 ai 3,5 euro a cassetta. I più forti riescono a fare 15-20 cassette in una giornata di 9-10 ore di lavoro. 5 euro vanno all’intermediario che parla col contadino, li viene a prendere e li porta al campo. Quindi alla fine guadagnano 25-30 euro al giorno. Non possono permettersi di andare a fare la spesa a Foggia, che è troppo lontana. A Cicerone c’è una foggiana che ogni giorno viene a vendere pane, bibite e altro a prezzi quintuplicati. Così, anche mangiando solo pane e acqua, i soldi se ne vanno veloci. Al ghetto si pagano le donne che preparano da mangiare. A San Severo si arrangiano come possono. Un pomeriggio stavano affumicando una pecora e un coniglio su di una griglia di ferro, che probabilmente era stata un’inferriata di una finestra.

 

La nostra presenza è accettata perché siamo lì per insegnare italiano con discrezione, offrendo un servizio a chi ne vuole usufruire. Una lavagna appesa ad un albero, quaderni, biro e fantasia. Le nostre sono lezioni poco "cattedratiche", non puntano soltanto alle regole grammaticali ma anche al rispetto reciproco. Questo permette un avvicinarsi pacifico, un camminare meno pauroso che fa diventare la diversità una ricchezza. Loro fanno domande e prendono appunti, instancabili fino all’ultimo minuto: «Perché gli italiani, se ci sediamo vicino a loro sul pullman, si alzano?»; «Come posso conoscere la storia dell’Italia?»; «Dove posso trovare un’agenzia di lavoro?»; «Come si scrive un curriculum vitae?»; «Perché qui non mi viene riconosciuta la laurea in design meccanico-industriale?»

 

Un’altra destinazione delle nostre giornate è il Centro di accoglienza per richiedenti asilo (Cara). Una struttura che di primo acchito pare una prigione. Per entrare bisogna avere un permesso, i militari all’entrata controllano i documenti. Una volta dentro subito l’occhio cade sulle alte inferriate che circondano la struttura. Lì la mattina aiutiamo l’insegnante di italiano, seguendo personalmente chi non capisce la lingua o addirittura è analfabeta. Il pomeriggio invece passiamo con loro il tempo in attività ricreative.

 

Anche mia sorella Nadia vive con me questi momenti: «Ogni giorno ciò che mi si prospetta davanti è uno scenario di miseria, desolazione e sporcizia così lontano da me e per me così inconcepibile che sono sconvolta. Ma non voglio scappare. All’inizio ho paura. Subito si avvicina un uomo che sembra un ragazzino, con un quaderno in mano. Desidera venire alla nostra scuola e imparare un po’ di italiano, dopo una dura giornata di lavoro nei campi. Con diligenza e attenzione si mette a studiare. Pian piano alcuni altri si avvicinano, e il giorno seguente altri e poi altri ancora. Ovunque andiamo si sperimenta la nostra impotenza, l’incapacità di fare e l’impossibilità di risponde alle loro domande, ma la volontà grande in noi è quella di far conoscere a tutti queste realtà. Entrare nella loro quotidianità, mangiare al loro stesso tavolo e semplicemente “esserci”, è per loro un grande segno di speranza e per noi una vera e propria conversione».

 

Laura Zatti

 

Per informazioni sul campo: http://www.giomis.scalabrini.net/

 

Ultime notizie da Cicerone: gli oltre settanta africani che occupavano il giardino attorno alla chiesetta sono stati sgomberati dai carabinieri su denuncia dei proprietari del terreno. Il cancello d’entrata è stato murato, così come l’ingresso della chiesa. Padre Arcangelo ha denunciato il fatto che lo sgombero sia avvenuto senza alcun preavviso, così che i migranti non hanno avuto il tempo di trovare una soluzione alternativa. I volontari del campo hanno dato una mano agli africani a traslocare in una masseria abbandonata a circa due chilometri di distanza, ma resta da trovare una sistemazione accettabile. Il missionario ha anche sollecitato enti e istituzioni ad una maggior collaborazione: la ragione Puglia e Medici senza frontiere hanno fatto installare anche quest’anno i bagni chimici e le cisterne dell’acqua potabile, essendo ben consapevoli delle condizioni precarie in cui questi lavoratori si trovano a vivere. Come dire: non possiamo girare la testa da un’altra parte, fingendo di non sapere.

 

Chiara Andreola

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