In fiamme la città di Osh

Scontri nella “capitale del Sud” del Paese centrasiatico. Le vicende politiche degenerano in faccende interetniche dalle radici remote.
scontri osh

Nell’agosto scorso mi trovavo a Osh, capitale del Sud del Kirghizistan, al confine con l’Uzbekistan, e mi ero reso conto delle tensioni interetniche esistenti nella città, composta in maggioranza da famiglie di etnia uzbeca, ma con una crescente presenza chirghisa. Avevo visitato una grande jurta, tipica di quest’ultima etnia, posta proprio ai piedi del Trono di Salomone, primo vanto della comunità cittadina, per riaffermare la natura chirghisa della città.

 

Anche al mercato c’erano gli “isolati” kirghisi e quelli uzbechi. E alla frontiera la tensione era palpabile nelle parole della gente che si accalcava agli sportelli della polizia di frontiera: tra i denti gli insulti reciproci erano non da poco.

 

Ora la città è in preda agli scontri interetnici,e decine di migliaia di cittadini di etnia uzbeca si sono rifugiati al di là della frontiera. La miccia è da cercare nella destituzione del presidente Bakiev avvenuta nella capitale del Nord, Bishkek, nello scorso mese di aprile. Il deposto primo cittadino viene in effetti dal Sud, da Jalal-abad, l’altra città importante della regione, ed ha soffiato sul fuoco delle tensioni interetniche per cercare di destabilizzare il nuovo governo presieduto da Roza Otunbaeva, e mandare all’aria il referendum per la nuova costituzione previsto per il prossimo 27 giugno.

 

La presidente ad interim ha chiesto l’intervento delle truppe russe; ma Putin ha declinato l’invito, inviando aiuti umanitari. E gli Stati Uniti, che pure hanno una base in loco, stanno a guardare. Così come i vicini cinesi, che stanno lentamente ma inesorabilmente prendendo in mano l’intera economia chirghisa. Insomma, la situazione è fluida, più che fluida.

 

Oltre i dati della cronaca riportati in un articolo allegato dalla nostra “corrispondente” da Bishkek, vanno ricordate le radici lontane di questo conflitto, che era esploso già nel 1990 con la rivolta della vicina Özgön (297 morti ufficiali, e centinaia di case bruciate: la volontà tutta sovietica e staliniana di impedire raggruppamenti regionali o statali a carattere etnico nelle repubbliche autonome dell’Asia centrale.

 

Così negli anni Quaranta Stalin spezzettò la regione della Valle di Fergana tra tre Stati: Uzbekistan, Kirghizistan e Tagikistan, dividendo le rispettive etnie in modo direi “scientifico”. Le conseguenze ora sono sotto gli occhi di tutti. Sperando che a pescare nel torbido non siano, alla fine, i più radicali gruppi islamisti della regione.

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