Imparare e narrare oggi il concilio

Non una celebrazione di circostanza o una nostalgica memoria:va riproposto il Vangelo dei poveri che Giovanni XXIII consegnò non solo ai padri conciliari ma ad ogni cristiano. Oggi tutti devono mostrarlo vivo
Concilio Vaticano II

Cinquanta anni fa, papa Giovanni inaugurava, l'11 ottobre, il Concilio Vaticano II. Cinquanta anni è un tempo giubilare, in cui nell’antico Israele si rimettevano in comune le proprietà, i beni, le terre. Oggi questo significa rimettere in comune tutte le grazie che dal Concilio e dal beato Giovanni XXIII sono scese su di noi e che spesso abbiamo sperperato e dilapidato.
Il papa aveva pensato al Concilio come alla risposta della Chiesa alla indicibile tragedia della Seconda guerra mondiale. In questo senso si esprime nel radiomessaggio a un mese dall’apertura. Non si intendeva offrire una teologia o una prassi diplomatica, ma rendere visibile la forza inerme del Vangelo, che è la forma  della vita della Chiesa e dei credenti, e per  questo li plasma  secondo il servizio, che ha il prezzo della vita.

Papa Giovanni ha detto in modo irreversibile che il Vangelo è il Vangelo, il Vangelo sono i poveri e i poveri sono il Vangelo. Il Vangelo non è per la Chiesa, ma per i poveri. La Chiesa, nella sua povertà e nella sua piccolezza, è e deve essere la casa dei poveri. Non si tratta di realizzare strategie pastorali, ma di condividere la vita. E la gioia di una buona notizia e di un buon annuncio.

Dice il profeta che la parola di Dio è come la pioggia, non ritorna in cielo se non ha fecondato la terra, così il Vangelo dei poveri, consegnato da Giovanni XXIII, è una parola irreversibile. Non si torna indietro. Non c’è Ior che tenga, non c’è curia che tenga, non c’è nostalgia del preconcilio che tenga, non c’è disegno politico di una cristianità che tenga. Di questo non bisogna avere paura. Il Vangelo dei poveri è davanti a noi, così come il Concilio e papa Giovanni che, con la sua umile risolutezza, l’ha aperto. Essi ci indicano la strada, che è vivere sulla frontiera dell’impossibile, là dove solo Dio opera, senza ricerca di mezzi umani, senza protezioni, senza alleanze di potere: inermi e disarmati, come il Signore sulla croce.

Annunciare il perdono nel tempo della violenza è vivere sulla frontiera dell’impossibile; riconoscere il volto di Gesù nel volto sofferente di un bambino palestinese è vivere sulla frontiera dell’impossibile, rifiutare la guerra e la sua cultura  e testimoniare la pace crocifissa è vivere sulla frontiera dell’impossibile, vivere la fraternità a partire dal più piccolo, dalle vittime è vivere sulla frontiera dell’impossibile. Riconciliare le persone, le comunità, i popoli, per mezzo della parola della croce è vivere sulla frontiera dell’impossibile.

Tutto questo va narrato con la nostra vita, in forza di quella fontana di grazia che papa Giovanni ci ha donato quell’undici ottobre. L’eucaristia, il battesimo, la parola ci consegnano il mistero dei poveri nella storia e ci danno la forza, per non rimanere prigionieri della paura, che ha il solo risultato di consegnarci alla nostalgia del passato.
Mai come oggi bisogna narrare papa Giovanni e il Concilio, per consegnarli ai nostri figli e ai popoli della terra, per mostrare che non è il Vangelo che cambia, ma siamo noi che cominciamo a comprenderlo meglio.
Noi oggi possiamo dire questo perché qualcuno ha raccontato a noi il Concilio. Penso al lavoro instancabile e alla sapienza dei tempi di Pino Alberigo, senza il quale oggi noi saremmo più ciechi, più sordi, più zoppi, e non potremmo vedere la luce del Concilio, ascoltare il suo annuncio, correre verso il Vangelo, che a partire dal Concilio è tornato a essere al centro della Chiesa e del mondo, là dove tutti sono attirati dal mistero di un patibolo.

Certo in questo tempo ci sono stati e ci sono cattivi pastori di Israele e cattive curie, ma la consolazione e la speranza non sono lì. Esse abitano  nel sangue delle vittime, il cui grido sale fino a Dio, e abitano nella casa dei senza dignità e dei senza storia. Anche noi dobbiamo tornare lì, per vivere la nostra conversione come luogo di incontro con tutti i fratelli. Allora sgorga l’unità, anche se le divisioni sembrano infinite.

Parlare del Concilio e di papa Giovanni non è guardare all’indietro come la moglie di Lot, che rimase pietrificata: è la parola di Dio per il nostro presente e il nostro futuro. C’è un unico rischio oggi: ridurre il Concilio a una devozione, doverosamente da ricordare, ma senza impegno, come si ricorda a età avanzata la nostra giovinezza. Il Concilio non è una devozione ma un evento dello Spirito, che infiamma i cuori dei credenti per la martyria della vita.

Molte cose oggi ci scandalizzano nella Chiesa e nella curia romana, ma questo non può distogliere dall’ascolto di Giovanni XXIII e del Concilio, che nella tormenta della storia anticipano il tempo del regno e indicano la via di Dio per la conversione e la purificazione della Chiesa  e di ciascuno di noi. Così oggi si sanano le ferite prodotte dalla durezza del cuore e dal desiderio del potere di coloro che vogliono «ridurre  la casa di preghiera in una spelonca di ladri».

 
 
 
 
 
 
 

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