Il Sudan tra secessione e lotte per acqua e petrolio

L’indipendenza del Sud sarà ufficializzata a febbraio, ma restano problemi enormi. Intervista al direttore di Popoli e missione, Giulio Albanese
referendum per la secessione sudan

L’annuncio ufficiale verrà fatto a metà febbraio, ma sembra ormai scontata la secessione del Sud del Sudan, territorio ricco di grandi giacimenti petroliferi e una lunga tradizione cristiano-animista, dal Nord, di tradizione invece musulmana. Il referendum che si è svolto nel Paese nella seconda settimana di gennaio era previsto dagli accordi di pace siglati nel 2005, che hanno messo fine a decenni di guerra civile. Stando agli osservatori internazionali, tra i quali il Centro Carter (la fondazione dell’ex presidente statunitense), è valido e si è svolto regolarmente. Le operazioni di voto, tuttavia, non si sono svolte pacificamente. Nella parte centrale del Paese, infatti, si contano decine di morti. Motivo del contendere una zona nevralgica del Paese, quella di Abyei, che Sud e Nord chiedono di annettere ai rispettivi territori. Stando agli accordi, il destino di questa città di frontiera, ricca di petrolio, doveva essere deciso da una ulteriore consultazione popolare, da svolgersi contemporaneamente al referendum per la secessione. A causa degli scontri, tuttavia, la votazione è stata rinviata a data da destinarsi.

 

Ma cosa succederà adesso in Sudan? Cosa attende la popolazione dello Stato più esteso dell’Africa? Secondo Giulio Albanese, giornalista e missionario comboniano, fondatore dell’agenzia di stampa internazionale Misna e attuale direttore della rivista Popoli e missione, il lavoro è appena cominciato.

 

Albanese, qual è la situazione attuale, in Sudan?

«In questo momento in Sudan c’è la grande speranza che, dopo il referendum che sancisce la secessione del Sud, possa esservi davvero una svolta. C’è stato un vero plebiscito: un’istanza popolare che non può non essere recepita. Al momento dell’unificazione, gli inglesi commisero l’errore di non tener conto che l’unificazione di un Nord di tradizione islamica con un Sud cristiano-animista avrebbe costituito un grave fattore di instabilità per il Paese. Lo scenario generale attuale, però, è molto complesso. Mancano infrastrutture, al Sud c’è da inventare un nuovo Stato, al Nord c’è il premier Bashir su cui pesa un mandato di cattura internazionale e c’è il rischio di ulteriori divisioni sociali. Al di là della religione, il vero oggetto del contendere è il petrolio, l’oro nero. Poi, c’è il problema dell’acqua, che viene attinta dal Nilo ed è contesa dagli altri Paesi del Corno d’Africa».

 

Dunque, la secessione ci sarà, ma resta il nodo di Abyei. Cosa si dovrà fare?

«Bisognerà attendere che si svolga la consultazione elettorale, ma prima ci si deve mettere d’accordo sulle regole di svolgimento e sui confini. Su quella zona ci sono forti interessi economici e, gli accordi precedenti, che hanno retrocesso il confine del Sud, non sono piaciuti agli ex ribelli. Molto, comunque, dipenderà dalla comunità internazionale e, in particolare, da Cina e Stati Uniti. Per quanto riguarda la secessione, l’annuncio ufficiale verrà dato a febbraio. Poi, fino a settembre, ci sarà una fase di transizione, nel corso della quale dovranno essere definiti i meccanismi del nuovo Stato: dall’indipendenza si deve passare alla fase attuativa. Bisogna anche creare una coscienza politica, che non esiste se facciamo un paragone con le grandi democrazie. C’è stato solo un movimento politico di liberazione che ha amministrato in questi anni di transizione. Ora, inoltre, bisogna lavorare per far convivere le varie realtà e i diversi gruppi etnici, superando il rischio di divisioni. Non dimentichiamo, infine, la necessità di stringere accordi con il Nord, altrimenti quelli del Sud che stanno in quell’area saranno considerati stranieri».

 

A questo proposito, si sta verificando un’emigrazione interna molto accentuata. Buona parte della popolazione si sta spostando al Sud, forse col miraggio del petrolio?

«Il problema è che al Sud, adesso, non c’è niente. Bisogna creare le infrastrutture, fare gli investimenti. Certo, c’è il petrolio, ma non significa nulla, da solo. Bisogna verificare la capacità di management e di gestione della res pubblica della nuova classe dirigente. Ci sono anche tanti accordi da siglare e non solo col Nord del Sudan. Il vero problema, per la popolazione, è quello delle acque, parliamo di quelle del Nilo, che non riguardano solo questo Paese, ma tutti quelli del Corno d’Africa. L’acqua, rispetto al passato, sta diminuendo e questo fa aumentare le difficoltà, non solo per la questione alimentare, che indubbiamente preoccupa il Sud del Sudan, nonché Khartum (capitale del Nord) e Il Cairo, ma anche per l’energia elettrica: è il Nilo, infatti, che alimenta le centrali idroelettriche. È un problema primario. È l’arma di cui dispongono i Paesi che sono a monte, Uganda ed Etiopia: le tante dighe in allestimento potrebbero provocare ulteriori problemi. Questo è un fattore destabilizzante. Serve un accordo sovranazionale, altrimenti, come ha detto qualcuno, si rischia una nuova lotta per l’acqua».

 

Poi, c’è il problema sociale. Si parla di tensioni e c’è chi teme una rivolta della popolazione, come in Tunisia. Le sembra una prospettiva reale?

«Sul problema sociale sarei cauto. Nel Nord ci sono delle difficoltà, ma non dimentichiamo che lì ha il potere Bashir, sul quale pesa un mandato di cattura internazionale. Se nonostante tutto è rimasto al suo posto, significa che gode dell’appoggio di componenti significative del mondo arabo. Non so fino a che punto il popolo riuscirebbe da solo a rovesciarlo. Se dovesse accadere, sarà perché qualcuno, al di fuori del Paese, reputa che Bashir abbia fatto il suo tempo».

 

Dunque, si torna alla comunità internazionale. Quali sono le principali influenze straniere?

«I due giganti, Cina e Usa, si contendono da tempo il controllo delle fonti energetiche sudanesi. Se la guerra è durata tanti anni, anche questi signori hanno le loro responsabilità. Si è infine arrivati all’accordo di pace di Nairobi perché sia Cina che Usa si sono resi conto che c’era bisogno di un’intesa, altrimenti sarebbe continuata una situazione di stallo. Il problema di fondo è l’esistenza di due filosofie politiche diverse. La Cina sta comprando, per così dire, tutta l’Africa ed è allergica all’agenda dei diritti umani. Qualcuno potrebbe dire che lo stesso vale per alcuni Paesi occidentali, che non hanno mostrato, in campo internazionale, molti scrupoli. Io mi auguro che si capisca che non può essere ancora una volta il popolo sudanese a pagare il prezzo più alto: intere generazioni sono già nate sotto le bombe. A livello internazionale, il Sudan è strategico nell’area del Corno d’Africa. Con 2,5 milioni di chilometri quadrati, è lo Stato più esteso del continente africano. È un gigante e anche diviso rappresenterà una parte sensibile dell’Africa, sulla quale ci sono interessi evidenti delle grandi potenze, con un feeling maggiore degli Stati Uniti con il Sud e maggiori contatti della Cina con il Nord del Paese. Io spero solo che alla fine i diritti della persona prendano il sopravvento, perché quello che è accaduto in questi anni è davvero scandaloso».

 

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