Il papa e gli agnelli sgozzati in Israele

La morte dei tre giovani ebrei e del ragazzo palestinese rischiano di innescare una nuova spirale di violenza e di odio. Cosa ha da dire il sangue innocente in questa guerra senza esito? Francesco torna a chiedere la riconciliazione e fa gesti eclatanti, come la proposta di incontrare le famiglie delle vittime
Commemorazione dei tre ragazzi ebrei

Martedì il "Messaggero" ha dato notizia di una telefonata tra il rabbino capo della sinagoga di Roma, Riccardo Di Segni e il papa. Siamo al giorno dopo il ritrovamento dei corpi dei tre ragazzi ebrei, Eyal,Gilad e Naftali, rapiti alla periferia di Hebron, qualche settimana prima. Un evento che lascia il mondo nello sgomento per la sua ferocia e per l’odio da cui nasce e che al tempo stesso moltiplica, oltre che per la follia di chi pensa che il futuro possa nascere dalla violenza e non dalla riconciliazione.

Il papa ha voluto esprimere in modo semplice, diretto, umile e non esibito il suo dispiacere. «Desideravo tanto manifestarle personalmente il mio dolore per i tre ragazzi…prego per loro», ha detto al rabbino. Durante i giorni del rapimento, Di Segni racconta che il papa avrebbe voluto incontrare le famiglie e l’incontro era stato fissato per lunedì 7 luglio a Roma, ma le cose sono andate in un modo radicalmente e tragicamente diverso.

Sembra che Francesco abbia pensato anche ad un viaggio per essere vicino ai familiari dei rapiti proprio nelle ore del dolore massimo, ma la cosa è stata rinviata perché secondo il rito ebraico, dopo la sepoltura, i familiari del defunto hanno l’obbligo di sospendere ogni attività per sette giorni. Rimane il segno del padre, che vuole condividere il dolore immenso di figli, a cui è stato strappato il presente e il futuro.

I tre ragazzi, i loro sogni, i loro desideri, la loro fede, i loro progetti sono stati uccisi in un attimo, in una terra, che è al tempo stesso di Dio, ma che in egual misura ospita la violenza degli uomini, quella che si autogiustifica e che dunque si riproduce continuamente in un meccanismo di azione e reazione senza fine che rende tutti ostaggi dell’odio.

Il papa ha voluto portare il dolore delle famiglie e di un popolo, senza altra pretesa che quella di seminare misericordia, perdono e riconciliazione. Questi ragazzi sono stati uccisi al modo delle parole del profeta: «Come pecore mute davanti ai loro tosatori». Ecco gli agnelli sgozzati del tempo di pasqua, uccisi in tempo d’estate.

Ecco il legame con la preghiera della sera di Pentecoste nella residenza di santa Marta a Roma. Lo stesso silenzio e lo stesso ascolto delle vittime; la stessa forza disarmata della Parola e lo stesso desiderio di condividere la sofferenza di due popoli, sfidati alla violenza dal delirio di una politica che vive l’illusione del più forte e del più armato.

Ma non bastava. Mercoledì un ragazzo di sedici anni, un figlio della Palestina è stato sequestrato a Gerusalemme est, vicino a Betanina e poi assassinato. Si chiamava Mohamed Abukhdeir. Andava alle scuole superiori e viveva in una famiglia modesta: anche lui sequestrato e ucciso dalla rappresaglia e dalla vendetta .

Mai come in questo momento di dolore e di tragedia è necessario dire parole di verità e uscire dal ricatto infinito della violenza e della morte, e prendere le distanze dal gioco delle ragioni reciproche per cui ciascuno, in forza della ragione propria, continua a uccidere l’altro. E questo deve valere a Gaza e a Sderot, a Modim e a Hebron, a Gerusalemme est e a Gerusalemme ovest.

Non c’e’ alternativa alla pace, alla riconciliazione e al perdono. Lo sanno bene anche i leaders politici, pronti a giustificare la propria guerra e a scomunicare quella dei loro nemici.

Bisogna ritornare alla preghiera di santa Marta. E’ l’unica politica possibile in Medioriente se vogliamo evitare l’abisso che tutto distrugge e porta via. Il vero obiettivo della grande politica in quelle terre non è vincere, ma riconciliare.

Io spero che papa Francesco inviti, insieme ai genitori dei tre ragazzi ebrei, i genitori di questo ragazzo palestinese, per condividere il dolore senza fine di padri e madri e per guardare alla tragedia dei due popoli con gli occhi del Dio della misericordia e del perdono e non con quella di una contabilità macabra.

Questi quattro ragazzi ,Eyal,Gilad,Naftali e Mohamed sono quattro agnelli sgozzati che domandano a palestinesi e israeliani e a tutto il medio oriente di intraprendere la via del dialogo e della pace e non quella delle rivendicazioni e delle armi.

Il papa sa bene che il sangue di questi agnelli può e deve essere il sangue della pace. Se quello di Gesù è più eloquente di quello di Abele, papa Francesco insieme ai genitori di questi giovani deve narrare a noi, che siamo sordi e muti di fronte al grido di questi piccoli, il mistero del loro sangue sparso, il mistero della vita e non della morte, il mistero della verità e non della menzogna, il mistero della misericordia e non della condanna, il mistero del perdono e non dell’odio.

Non siamo condannati alla violenza. Per tre anni di seguito dal 2008 al 2010 ho partecipato a campi estivi di ragazzi palestinesi e israeliani, che provenivano da Gaza e da Sderot senza differenze e distinzioni. Passato il primo imbarazzo, rapidamente, si diventava amici gli uni degli altri. Ognuno rinunciava alla magliette e ai propri distintivi e si viveva insieme.

La cattiva politica invece genera l’odio. La buona politica semina la pace. Si tratta di disarmare i cuori per costruire ponti di dialogo. Non è difficile. Con il loro martirio questi quattro ragazzi dicono semplicemente questo e lo dicono i loro genitori e lo dicono a tutti di fronte alla follia che produce questo scialo di morte. Chi ha orecchi per intendere, intenda.

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