Il mondo in una stanza

«La malattia non mi defraudava di qualcosa: forse era la “grande occasione” della vita». A Fiesole, da padre Vittorio.
Padre Vittorio Casagrande

Sono venuto a Fiesole apposta per conoscere padre Vittorio Casagrande. Vive su una carrozzina nell’antico convento di San Domenico, dove prese i voti e iniziò la sua attività di pittore fra’ Giovanni da Fiesole, meglio noto come Beato Angelico.

Vittorio mi accoglie con sguardo luminoso. Sulla scrivania il computer col quale, oltre che col telefono, mantiene i contatti con chiunque ricorra a lui per un motivo spirituale o un consiglio, e sono tanti.

 

«Ho sempre avvertito – comincia a raccontarmi – la presenza di Gesù nella mia vita come un qualcosa che “mi abitava”, dandomi la sensazione di essere amato e accompagnato verso il compimento di un ideale per il quale valeva la pena affrontare ogni sorta di sacrifici (ero di famiglia molto povera)». Alla fine delle elementari il seminario minore. Poi quello maggiore a Vittorio Veneto (Tv). «Dopo aver superato una crisi esistenziale in cui ero stato tentato di mollare tutto, mi fu chiaro che scopo della mia vita era “dire” l’amore di Dio. Ma come? Cercando un impegno più radicale dello stesso sacerdozio, mi orientai all’Ordine dei frati predicatori: era la Parola annunciata oltre che testimoniata e vissuta. E il 12 settembre del 1963 entrai nell’Ordine domenicano proprio qui, a San Domenico di Fiesole».

Del periodo di Vittorio Veneto ricorda «un foglietto ciclostilato che circolava in seminario, di cui mi attiravano le “esperienze di vita”: era uno dei primi fogli di collegamento tra quanti aderivano ai Focolari. Più tardi, nel mio primo anno di noviziato, trovai la rivista Città Nuova, che arrivava qui regolarmente».

 

I primi veri contatti col movimento li ha però nel 1966 a Roma, dove frequenta altri religiosi interessati alla spiritualità focolarina. A questo scambio vitale cercherà di mantenersi fedele, malgrado gli spostamenti e gli incarichi affidatigli: Firenze, Livorno, Cagliari, Caldine vicino Firenze, Fiesole e ancora Firenze, nel convento di San Marco affrescato dal Beato Angelico. Con quali frutti? «Imparavo a vivere quell’amore vicendevole che fa sperimentare Cristo presente tra due o più, mentre fino ad allora avevo una percezione più teorica che pratica di questa realtà spirituale. L’ideale dell’unità mi apparve subito come un grande fiume nel quale io, piccolo ruscello, ero entrato senza però che venissi annullato. Mai l’ho avvertito come una sovrastruttura, ma come un dono determinante per diventare, per quel che sono riuscito, sempre più figlio anche di san Domenico».

 

Sono anni intensissimi, talvolta in ambienti difficili, con compiti spesso delicati e di responsabilità, «oltre alla predicazione in cui cercavo di far trasparire lo spirito di unità ormai diventato per me un respiro dell’anima. Ma pur oberato di lavoro, sentivo una forza che mi portava a dire di sì ad ogni richiesta».

 

A Montepulciano (Si), vive un’esperienza particolare. «D’un tratto ebbi l’esatta percezione – come un flash back – dell’intera mia vita: mi sembrò di vederla incompiuta in tutte le sue parti, dove ogni tappa era stata interrotta sul più bello, quando c’erano i presupposti per un lavoro apostolico in profondità ed estensione. Ma avevo scelto di lavorare nel campo di Dio che è la Chiesa, non dove preferivo io. Fu proprio a Montepulciano che Dio, questa volta, non i miei superiori, mi chiese di perdere tutto con l’irrompere di una mielite acuta, multipla, trasversa, che nel giro di 25 giorni mi portò alla paralisi completa degli arti inferiori. Sì, quel 20 ottobre 1989 iniziava per me una nuova fase, che dura ormai da ventidue anni. Era come se Dio mi stesse dicendo: «Non sono le tue opere che voglio, voglio te». Ma allora la malattia non mi defraudava di qualcosa, era un’occasione da cogliere, forse la “grande occasione” della vita! Io almeno l’ho intesa così».

 

All’immobilità esteriore corrisponde un “viaggio” nel mistero del dolore e del non senso, tra momenti di buio (la prova del sentirsi inutile, quasi collocato su un binario morto) e altri invece luminosi.

«Tutto ciò che è umano – dichiara padre Vittorio – non mi è estraneo. È vero che, data la mia condizione, non posso influire sugli avvenimenti vicini e lontani. Mi è data però la meravigliosa avventura di vivere. Tutto può diventare occasione di lode, di ringraziamento, di preghiera, di offerta. Anche Gesù, sulla croce, non ha fatto più miracoli o annunciato il Regno, ma ha continuato ad amare, anzi ha manifestato l’amore più grande e più puro, dando la vita per noi. Stare fermo non è immobilismo. Con e per Gesù abbandonato, devo essere “dono”».

 

E un dono davvero è stato per me questo incontro. Fuori dal convento, davanti allo spettacolo incantevole delle colline fiesolane, leggo un foglio regalatomi dall’amico, un brano di diario di qualche anno fa: «Caro Gesù, ricomincio con te, che mi richiami alla solennità dell’ora. Ora che è finito il tempo di andare e cingermi quando volevo, e avverto il fantasma della solitudine. Ora che in tutto e per tutto dipendo dagli altri anche nelle cose più delicate e riservate. Ora che il mondo, per me, è diventato una stanza e il silenzio avvolge la mia vita, ritmata dalle solite monotone cose d’ogni giorno. Ora che tante persone conosciute e incontrate consumano i loro giorni sulle strade del mondo senza che io abbia più da interferire o consigliare. Ora che devo affidarmi alla fede per dare un senso alla mia vita e scoprirne il valore… E ogni volta tu ti presenti alla porta dell’anima e chiedi di entrare e sedere a mensa con me. Gesù, per tutto questo, come non amarti? Ora».

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