Il mistero di una vita sospesa

Lampi di luce nel buio della malattia. Mariapia Bonanate racconta i suoi anni accanto al marito in coma.
Illustrazione della copertina di "Io sono qui" (Mondadori)

Scuote fin nel profondo la lettura di Io sono qui (1), l’ultimo libro-testimonianza della nota giornalista e scrittrice di madre valdostana e padre torinese. Vi è descritta l’esperienza estrema che da più di sei anni sta vivendo accanto al marito colpito dalla sindrome Locked-in, una specie di coma che lascia la persona con la mente lucida, ma nella totale impossibilità di muoversi e di comunicare.
 
Cosa l’ha spinta a scrivere un libro del genere?
«Un giorno, pensando a quanti vivono questa vita sospesa e ai loro familiari, quasi tutti circondati da una indifferenza che raddoppia il loro dramma, mi son detta che forse, raccontando quanto vivevo, li avrei fatti sentire meno soli. Spero di essere riuscita a trasmettere la luce e la speranza che dal profondo del dolore può emergere quando ci si abbandona con fiducia, pur nei limiti della nostra comprensione umana e razionale, a quel disegno che viene dal cielo e nel quale scorre la nostra esistenza».
 
Anni fa lei ha scritto «Perché il dolore nel mondo?». Di nuovo affronta tale mistero, che però stavolta la tocca personalmente. Quale il suo percorso da allora?
 «Una cosa è raccontare il dolore dall’esterno, sia pure con partecipazione e commozione. Un’altra è quando questo dolore sei tu stesso, 24 ore su 24. Confesso che i primi tempi brancolavo nel buio di un mondo che si era capovolto su di me e sulla mia famiglia, mi ribellavo alla sorte, più drammatica della morte stessa, che aveva colpito mio marito. Poi un giorno la mia nipotina di otto anni, guardando il nonno immobile nel letto, ma con gli occhi che ci scrutavano, ha esclamato: “Il nonno non può più parlare né muoversi, ma c’è!”. È stato come se mi si spalancasse una finestra su una dimensione di vita invisibile, ma presente. Nelle ore del silenzio che trascorrevo nella stanza ho ascoltato questa vita che mi portava a scendere nel nucleo più segreto dell’esistenza. Quei lampi di luce mi hanno dato la forza di uscire dal tunnel, per affacciarmi su un mondo nuovo, “altro”».
 
Anche lei, come Giobbe, s’è sentita provocare dall’apparente assenza di Dio davanti all’assurdità del dolore, alla presenza del male…
 «Quel Dio con il quale colloquiavo nei giorni della salute e del benessere in una gioiosa complicità, talvolta intercalata da qualche bisticcio, ora lo avverto presente dentro di me. Più che vederlo, tocco il suo mantello che tutta mi avvolge, anche nei momenti del rifiuto e della tentazione della resa. Quando non ce la faccio più, nell’usura prolungata di una quotidianità senza futuro, con un presente che ogni giorno mi spiazza, sento che lui prende il mio posto anche nelle cose più banali. Non mi toglie la croce, ma mi dà sempre un aiuto per renderla meno pesante. Difficile raccontare questa intimità mai provata con Dio, appartiene a una dimensione che le parole rischiano di tradire. Si manifesta in una comunione nuova con tutta l’umanità, in particolare con quella sofferente, con le “pietre scartate” delle Beatitudini. L’avverto nel creato, nella bellezza della natura. Si rivela con tanti “segni” che, a volerli leggere, mi spingono ad abbandonarmi con fiducia nelle sue braccia e mi autorizzano a dirgli: “Prendi tu la mia, la nostra vita in mano. Sono così stanca… ma posso riposarmi soltanto se tu prendi il mio posto. E sono certa che lo farai”».
 
Come mai ha scelto come compagna in questo itinerario del dolore Etty Hillesum, quest’ebrea morta ad Auschwitz, e non piuttosto come prima guida il Vangelo?
«La mia amicizia con Etty risale a 25 anni fa, quando conobbi per caso la bellezza e la grandezza di questa giovane donna che aveva scoperto il Dio sepolto nel suo cuore sotto un mucchio di macerie. Un incontro che aveva cambiato radicalmente la sua esistenza a tale punto da farle dire “la vita è bella”, mentre infuriava l’apocalisse nazista e lei stessa con tutta la sua famiglia si accingeva a partire per Auschwitz. Quando mi sono trovata anch’io di fronte all’assurdità del male, all’impotenza di combatterlo, il suo percorso in Dio ha sempre di più corrisposto al mio viaggio interiore e umano. Ho preso l’abitudine, nei momenti difficili, di aprire a caso il suo Diario e, per una sorprendente coincidenza, ogni volta vi ho trovato parole che erano balsamo per le mie ferite. Il Vangelo è dentro di me in quella convivenza meravigliosa che ho con il Cristo di cui parlo in uno dei miei libri che più amo: Il Vangelo secondo una donna. L’amicizia con Etty mi ha fatto vivere più intensamente la “buona notizia”».
 
Il suo libro è gremito di altre presenze amiche, quasi a suggerire che certe prove non si superano da soli. Cos’è per lei realtà del corpo mistico?
«Devo alla comunità di amici, volontari, infermieri che si è costituita in quella che oso definire la “mia piccola chiesa domestica” se abbiamo potuto ricreare, nell’assurdità del dramma, una certa “normalità”. Se non ci fossero stati loro, non ce l’avrei fatta, non ce la farei. Il dolore chiede di essere abitato insieme, tenendosi per mano. Solo così si riesce ad affrontarlo senza chiudersi nella disperazione. Penso che il corpo mistico sia questa unione intima, amorosa, con le persone che ci vivono accanto, con quelle in altre parti del pianeta, alle quali ci uniamo idealmente nella sofferenza che ci accomuna, e con le persone invisibili come Etty, che ci hanno preceduti nel grande salto nel cosmo divino. A saperle “vedere” e ascoltare sono più vive e presenti che mai».
 
Quando parla di suo marito lei non lo chiama mai per nome, dice “lui” o “il mio Cristo velato”, riferendosi alla celebre scultura del Sammartino. Come mai questa scelta e come è cambiato in questi anni l’amore per il compagno della sua vita?
«Il mistero del dolore chiede rispetto e silenzio. Per questo ho innalzato attorno a quel letto, divenuto un altare, una cortina che riparasse l’identità di chi l’occupava. Più che cambiato l’amore per colui con il quale ho condiviso 46 anni di vita, si è intensificato in un rapporto essenziale e profondo, in un'intimità che mi ha permesso di riscoprire la sacralità dei sensi, dei gesti, delle carezze, dei baci. In una comunione ricca di vibrazioni che arrivano da una dimensione sconosciuta, ma tangibile, che ci permette di comunicare anche senza le parole».
 
 Chi è fortemente provato rischia talvolta il ripiegamento su di sé. Nel suo caso l’orizzonte rimane sempre ampio, aperto al mondo intero. Forse per la sua stessa professione di giornalista, abituata a guardarsi intorno e a captare situazioni?
 «Certamente vivere il giornalismo come sempre ho cercato di praticarlo, condividendo situazioni e dando voce a tante vite spezzate, mi aveva preparata a non chiudermi nel mio dolore. In quel letto ho rivisto i volti di tanta umanità sofferente incontrata e di cui ho parlato nelle mie inchieste e nei miei libri. Ma penso che soprattutto mi abbia aiutata l’avere sempre tenuto le finestre spalancate sugli orizzonti vicini e lontani. Senza volerlo e senza saperlo, ci siamo preparati con questo stile di vita familiare a diventare quella “famiglia allargata” che in questi anni ci ha permesso di non soccombere sotto il peso di una convivenza così lunga con la malattia».
 
1) Mondadori Editore, euro 17,50.

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