Il mare: lo vedo danzare lungo i golfi chiari

Paolo Poli porta in scena i racconti di Anna Maria Ortese: un baule di ricordi, critiche al malcostume, messaggi di pace
Poli e le marionette

Un verso di una famosa canzone di Charles Trenet, può descrivere Paolo Poli e la sua ultima riduzione scenica ricca d’ironia, sensibilità ma anche di solitudine. All’interno della Sala Umberto, che quest’anno compie il secolo di attività, l’attore fiorentino offre al pubblico i racconti di una scrittrice poco conosciuta: Anna Maria Ortese.

Le storie de Il mare dipingono una realtà tragica come in un sogno e sono viste attraverso il ricordo struggente di un’infanzia infelice ma luminosa, un’adolescenza insicura ma traboccante, un amore sfiorato, mai posseduto.

 

Gli scritti composti tra gli anni trenta e gli anni settanta rendono giustizia ad un’intellettuale che insieme ad Anna Banti riuscì ad imporre la sua arte in un campo che, nella prima metà del novecento, era per lo più dominato dagli uomini. Lo stile della Ortese si caratterizza per il suo sperimentalismo, per la sua costante ricerca estetica, senza tuttavia cedere alla tentazione di una forma ermetica o eccessivamente avanguardista.

L’isolamento e la solitudine patiti lungo tutta la sua esistenza, insieme alle umiliazioni e ai lutti, nella vita privata come in quella letteraria, ne fanno un personaggio difficile e per tanti versi scomodo, capace di critiche e posizioni molto dure.

 

Paolo Poli per certi versi simile all’autrice apolide, come un moderno Canio sembra interiorizzare questo sentimento di tristezza attraverso canzoni e coreografie che portano lo spettatore a fare un tuffo in quel teatro di rivista e di avanspettacolo della prima metà del Novecento.

Eppure i lazzi che vedono complici anche altri quattro interpreti, Mauro Barbiero, Fabrizio Casagrande, Alberto Gamberini e Giovanni Siniscalco, non risparmiano l’ironia salace sempre verde e pungente dell’artista che rompe la quarta parete con esilaranti interazioni con il pubblico.

 

Il mattatore toscano, infatti, lancia messaggi pacifisti affermando che la guerra non fa altro che invecchiare le menti e fa una critica al malcostume, sempre più in auge in questi tempi, e cioè quello di ridere e parlare delle disgrazie altrui senza emozionarsi.

Un aspetto che traspare, infatti, è quello di trovarsi davanti ad una tipologia di spettacolo che va custodito e fatto conoscere alle nuove generazioni. Ci si trova a curiosare nei vecchi bauli di famiglia dove sono riposti ritratti del passato, bambole di pezza e figurine di carta da cui anche un personaggio della scena internazionale come Arturo Brachetti, sembra aver preso ispirazione.

 

Bellissimi gli sfondi creati del compianto Luzzati, veri e propri dipinti su teli complementari, acquistati da Poli prima che lo scenografo morisse che illustrano benissimo gli scritti della Ortese attraverso una sapiente alternanza di ambientazioni lunari, paesaggi rupestri e marini. La compagnia, interamente al maschile d’impronta elisabettiana, si cala con grande bravura nei panni di uomini, donne e bambini, senza risultare mai inappropriata.

Alla fine della pièce il pubblico ne esce rinsavito e rincuorato in un turbinio di sentimenti che variano dall’euforia alla melanconia.

Interessante vedere che molte persone anziane, che, anche nel periodo di crisi, non hanno rinunciato al teatro e parlano, ridendo, del Poli degli esordi della sua eleganza mista alla sua satira feroce.

L’artista fiorentino plaude soprattutto alle donne, a molte di loro che da anni lo sostengono e almeno una volta nella vita hanno letto un libro definendole il cemento del teatro: «Oggi vedevo la facciata della Sala Umberto: dice che tutte le età convergono alla fine nella patria: e sono tutte donne, che si affacciano a dei tondi e fanno capoccella. Sono le donne che portano a teatro i mariti…che poi dormono e allora ci vuole una gomitata per l’uomo».

 

Dopo il successo alla Sala Umberto dall’11 gennaio in scena al teatro Eliseo

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