I sogni nella valigia

Isuoi occhi sgranati di gioia rimangono l’emblema di un successo che gli azzurri inseguono ormai da vent’anni. Lui, Salvatore Schillaci, che un anno prima giocava in B nel Messina, fece sei gol in un mondiale. Poi venne la sconfitta con l’Argentina, un incantesimo spezzato dai calci di rigore. “Totò, peccato, ci sei andato vicino ” si sente dire ancora oggi dalla gente per strada. Chiuso il mondiale, si chiude la sua parabola: briciole di gloria fra Juventus ed Inter, quattro anni in Giappone, poi del ritorno nella sua Sicilia, da dove era partito nove anni prima, con la valigia carica di speranze. Oggi, spenti i riflettori, dirige una scuola calcio a Palermo. Vive un sereno anonimato: non lo cercano in molti. La telefonata lo sorprende e lo onora. Cosa le è rimasto di quel mondiale? “Per me fu inaspettata persino la convocazione: mi sentivo l’uomo più felice del mondo. Conquistai un posto in panchina. Alla prima partita, con l’Austria, al 75′, Vicini, il commissario tecnico, mi disse: “Alzati!”… e cammina, aggiungo io oggi, pensando che è stato davvero un miracolo. Poi, come succede in tutte le favole, accadde che dopo tre minuti feci anche gol. Divenni subito popolare. Vicini mi promosse titolare e segnai, segnai…altri gol. Oggi mi rimane il ricordo stupendo di essermi fatto conoscere e il titolo di cannoniere. E la gioia di un figlio nato durante il ritiro. E il ricordo brutto della semifinale: potevamo davvero vincere il mondiale. Ma questo fa parte della vita di un calciatore. In fondo son un uomo fortunato”. E semplice, senza peli sulla lingua. Una virtù che non sempre gli ha portato fortuna. Sentite il suo paragone fra la nazionale di allora e quella di Trapattoni. “Il livello tecnico, secondo me, è sceso un po’. La nazionale del ’90 era migliore, sul livello di quella dell’82, con grossi giocatori, …fra cui io. Anche Maradona, Matthaeus, Zico erano più forti dei giocatori di oggi, a parte Zidane e Figo”. Bontà sua. Chi le assomiglia di più fra i calciatori di oggi? “Chiesa, che purtroppo è rimasto a casa: ha scatto, dribbling e calcia bene la palla. Forse un po’ Montella, meno veloce di me, ma forse con ancora più fiuto del gol”. Lei ha vissuto da emigrante di lusso, prima nel nord Italia e poi in Giappone, restandoci ben quattro anni. Che avventura ha vissuto nella terra che oggi ospita i mondiali? “Io non l’ho mai negato: sono andato lì per soldi. Attraversavo un periodo nero all’Inter, con vari infortuni. L’accoglienza fu straordinaria anche se, passata la curiosità che ho provato all’inizio, è stata dura. Vivevo in una piccola cittadina, Iwata, un paese in cui non c’era nulla, a parte il campo di calcio. Una partita ogni tre giorni, sempre in viaggio. I giapponesi sono comunque un popolo straordinario: gente educata, civile, che rispetta il tuo lavoro e ti paga puntuale. Hanno organizzato i mondiali in maniera strepitosa, costruendo degli stadi straordinari, dei veri gioiellini”. Che calcio si gioca in Giappone? “I giocatori giapponesi hanno grinta, volontà di correre, desiderosi farsi vedere: si ispirano dichiaratamente ai giocatori italiani e così i tifosi”. Stupisce, ma fa piacere, vedere tifosi giapponesi apertamente schierati, oltre che per la propria nazionale, anche per una o l’altra squadra presente, Italia in testa: come spiega questo fenomeno? “I tifosi giapponesi di calcio ne capiscono niente o poco. Vanno allo stadio come a teatro: famiglie intere, con i bambini, le magliette, il tamburello, si portano il cestino, fanno il tifo con semplicità, tifano per la squadra che gioca bene, che perdano o vincano non succede mai nulla…”. Il calciatore quindi vive più tranquillo… “Tranquillo? C’era la noia più totale! Firmati quattro autografi, fatta la foto con loro, era tutto finito”. La sua passione per il calcio non sembra essere tramontata: la scuola calcio che lei guida a Palermo lo testimonia. “Non so fare altro – ammette Schillaci -: io ho fatto solo il calciatore. La mia passione è sempre stata il calcio. Vivevo al Cep, un quartiere povero. Giocavo dalla mattina alla sera, sulla strada, le porte fatte con due pietre. Non andavo a scuola per giocare a calcio, anche perché i miei non se la passavano bene. Per questo al calcio devo tutto, tutto ciò che anche oggi ho. Ho acquistato e ristrutturato il campo dove giocava l’Amat, la mia squadra da ragazzo, ed ho costruito un centro sportivo che dirigo personalmente, frequentato da 700 ragazzi. A loro do quello che mi è mancato: una scuola calcio, dei campionati organizzati. I ragazzi che stanno qui non ricordano nulla di me: auguro loro di ripetere almeno in parte la mia carriera, di realizzare ciò che sognano. Perché non basta allenarsi, occorre un talento naturale: io sono nato calciatore, grazie ad un dono che Dio mi ha dato…”.

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